Federico Zeri nacque a Roma il 12 agosto del 1921, cento anni fa esatti. E’ stato uno dei più grandi storici dell’arte italiani; nel ’93 venne nominato vicepresidente del Consiglio nazionale dei beni culturali. Morì a Mentana nel 1998. A San Severino venne per dar vita, assieme all’amico Giorgio Zampa, al Premio Salimbeni per la storia e la critica d’arte. Fu presidente della commissione giudicatrice di 15 edizioni e non mancò mai al Feronia per la cerimonia di consegna dell’ambito riconoscimento.
Ecco cosa disse il professor Giorgio Zampa in occasione del conferimento del XVI Premio Salimbeni avvenuto a distanza di due mesi dalla scomparsa di Federico Zeri.
Ringrazio la signora Nunzia Zeri Malgeri, con il figlio Eugenio erede di Federico Zeri, per la loro presenza tra noi, che non solo testimonia continuità con un passato da alcuni magari considerato ormai chiuso, mentre vorremmo vederla come manifestazione di solidarietà nei confronti di un programma di cui Zeri tracciò il carattere peculiare; due decenni hanno consentito di porlo in essere solo in parte, attraverso interventi così discreti e in apparenza marginali, in un Paese che si vota sempre più a una chiassosa apparenza. In questa riunione, che può sembrare d’altri tempi, non c’è apparenza ma, ci sembra, sostanza: il chiasso vi è bandito per privilegiare arie di Mozart e di Pergolesi; si tratta di una modesta cerimonia, che, priva di orpelli e di amplificazioni retoriche, sottolinea la serietà di un impegno e la peculiarità di quanto abbiamo cercato di fare con i nostri mezzi, nel corso di pochi anni, con la presenza attiva, seppure discretamente appartata, di Federico Zeri.
Vorrei corroborare tali affermazioni seguendo il corso del Premio Salimbeni dalla prima, quasi familiare manifestazione, alla giornata odierna. Inevitabili, ma forse non essenziali, difetti, lacune, carenze; ma anche risultati che hanno sorpreso, per numero di concorrenti, per livello, qualità e varietà delle opere presentate. Scarsi i lavori di compilazione, privi di valore scientifico; mentre sempre più le opere presentate hanno via via meritato attenzione, giustificando l’asserto di chi tenderebbe a definire il “Salimbeni”, come ormai viene chiamato, un premio unico in Europa; e questo per il prestigio della Commissione scientifica, per l’impegno che ha posto e pone nel suo lavoro, riconosciuto anche fuori dei confini nazionali.
Vorrei esimermi dal toccare, sia pure di passata, l’aspetto scientifico dell’operazione, limitandomi all’apporto conferito da Zeri, alla sua novità e autorevolezza. A Zeri si deve l’idea di un luogo appartato, distante dai grandi centri di cultura, non proprio ricco di mezzi, con i tempi che corrono; e tuttavia dotata di una sua civiltà, illustrato da artisti locali o acquisiti, affiancati, fino al secolo scorso, da eruditi, da botteghe di artigiani peritissimi, da un modo di vita semplice e raffinato, a completare quello di una varia, vasta, a tratti incantevole campagna; la Commissione del Premio Zeri volle composta da “membri estranei a ogni mafia accademica, politica e mercantile”.
Nell’occasione mi torna alla memoria l’arrivo del critico–scrittore a San Severino, la sua imperturbabilità davanti al tragicomico esordio del Premio, insieme con la costante attenzione per quanto si preparava. Anche quando il lavoro lo obbligava a lunghe assenze, la sua telefonata alle sette di mattina mancava solo di rado: consigli, informazioni, suggerimenti erano sempre freschi, appropriati; la sua attenzione non si arrestava, se non per burla, su futilità.
L’interesse di Zeri per l’attività di antichi pittori marchigiani operanti in territori appartenuti o no giuridicamente a San Severino risale alla sua giovinezza. Quando nell’’80 decise di partecipare in prima persona a un’impresa che aveva apparenza di scommessa, non si trattò di scelta improvvisa o infondata. Da anni egli percorreva in lungo e in largo la nostra terra, trattenendosi, oltre che a San Severino, a Camerino, Matelica, Fabriano, Jesi, Pesaro; conosceva a menadito le nostre campagne, ancora mirabilmente coltivate, per tanti aspetti ancora da scoprire. Da riportare ai suoi irrequieti anni giovanili è dunque l’interesse per le Marche, e i suoi primi scritti, dati alle stampe nel 1948, dedicati a Carlo da Camerino, a Giovanni Antonio da Pesaro, un pittore allora pressoché ignoto, a Ludovico Urbani, pittore squisito di San Severino ove ancora è semisconosciuto, e non si conservano sue opere; fu Zeri appunto, anche se alcune sue attribuzioni si sono rivelate inesatte, a riconoscere l’altissima qualità dell’artista: ma non è questa l’occasione di parlare dell’attenzione dedicata da Zeri all’arte delle Marche e nelle Marche: altri ha svolto tale compito in questo stesso fascicolo. La Fondazione si ripromette di dedicare a questo tema la rilevanza che merita, avendo riguardo alla pluralità di aspetti che concernono non solo il critico e lo storico dell’arte e, in senso stretto, il conoscitore, ma il sorvegliante, il censore, il giudice di quanto in Italia si veniva e si viene via via perpetrando per distruggere e sfigurare, alterare l’arte e le meraviglie di una natura ancora incontaminata.
Inutile, ora, è che faccia l’elenco dei suoi studi, che insista sulla costante attenzione riservata alla nostra (chiamiamola così) Scuola pittorica: definizione forse impropria, meglio dire all’arte e alla pittura esercitate entro e fuori le mura di San Severino. Abbiamo di lui studi su Allegretto Nuzi, su Arcangelo di Cola, su Carlo Crivelli, soprattutto abbiamo quello che forse è il suo libro più carico di energia, intellettualmente più alto: un capolavoro, da cui non si può prescindere anche dal punto di vista del metodo. Intendo il saggio intitolato “Due dipinti, la filologia e un nome, il Maestro delle Tavole Barberini”, pubblicato nel 1961, con un’ipotesi attributiva a Giovanni Angelo di Antonio di Camerino e l’identificazione di suoi dipinti passati in parte in America, e però presenti anche in Italia: basta pensare a quello che Zeri ha ritenuto di ravvisare nel Palazzo Ducale di Urbino. Ma altrettanto importante, e rievoco questo perché non si creda che lo studioso fosse venuto qui per un tardo innamoramento per le poche reliquie artistiche della nostra cittadina o magari ne avesse scoperto l’originalità attraverso fonti letterarie. In un saggio intitolato “Un unicum su tavola” relativo a un’opera custodita nel Museo di Malta, aveva attribuito a un maestro di altissima qualità, noto convenzionalmente come “Maestro di Campodonico”, un capolavoro, di cui si è affermata, grazie a prove decisive, una fondante, elegantissima personalità.
Successivamente seguono, è inutile che qui li elenchi, saggi sulla Pinacoteca di San Severino, finendo con l’intervento decisivo per la nostra Fondazione (insisto ancora su questo punto) e per la Città di San Severino quando, nel 1980, uscì la parte dedicata a inchieste sui centri minori nell’ottavo volume della “Storia dell’Arte Italiana” stampata da Einaudi in dodici tomi. La “Storia” di Einaudi riuniva collaboratori di grande prestigio e ripercorreva la storia essenziale dell’arte italiana, a prescindere dal “primato” vasariano, con inclusione di artisti marginali dimenticati, di umili, di anonimi, scendendo sino all’arte “popolare”.
Tale richiamo potrà sembrare disdicevole alla non ampia monografia dedicata a San Severino, perché San Severino non è da includere tra centri negletti in assoluto; la Città ebbe importanza, nel corso di alcuni secoli. La “Storia dell’Arte” di Einaudi fu, se non decisiva, di grande importanza come richiamo rivolto all’intero Paese.
Il fatto, personalmente, mi colpì, perché tra i tanti esempi illustrati la storia di San Severino, redatta da Orietta Rossi Pinelli con criteri di novità, anche se non esente da errori di fatto e da inesattezze, forse comprensibili per i tempi brevi in cui il lavoro fu compiuto, veniva per la prima volta, come s’è detto, illustrata all’Italia. L’impostazione del lavoro nella sostanza era fatta con criteri di novità, tali da far considerare la cittadina con occhi nuovi, apprezzandone aspetti fino a quel momento negletti: come l’importanza avuta dal “rione Conce”, tale da giustificare la definizione di borgo proto-industriale. Altro esempio significativo, scriveva Zeri nella prefazione al volume, è quello del castrum che, nel Quattrocento, è sede di una produzione pittorica originale, sebbene le sue radici culturali siano ancora da mettere in luce.
Alla fine del secolo – si parla sempre del ‘400 – il numero d’importazioni di opere d’arte dall’Umbria, dall’Emilia, dalla Lombardia, anche dalla Toscana, si accorda con il livello dell’arte di Lorenzo d’Alessandro. Il percorso della cultura pittorica del piccolo centro è parallelo alle vicende storiche locali, quando da microcapitale di una signoria locale, quella degli Smeducci della Scala, la città perde importanza per essere alla fine incorporata nello Stato della Chiesa.
Ma riprendiamo la storia relativa alla nascita del nostro premio. Dopo aver scartato l’idea di un premio letterario, per il numero enorme di tali concorsi nel territorio nazionale, si pensò ad un riconoscimento che andasse ad un’opera dedicata ad un lavoro, ad un artista, ad un’epoca che riguardasse l’arte italiana. Fu interpellato Pietro Zampetti, attivissimo, generoso storico dell’arte, sempre disponibile a iniziative come quella proposta, che giovassero a far luce su territori o nomi poco conosciuti; Zampetti accettò subito e insieme con la sua si ebbe la partecipazione dello stesso Zeri: in Italia, fece egli notare, nessun Premio era dedicato a studi sull’arte italiana. Fu Zeri a tenere il discorso inaugurale nel giugno del 1983; il Premio andò ad un’opera del professor Franco Mazzini “I mattoni e le pietre di Urbino”, lavoro esemplare per ampiezza e profondità di documentazione, per novità di risultati raggiunti. La giornata, trascorsa in una località meravigliosa, tra i monti, con i vincitori del Premio, Giulio Einaudi, Fantoni e altri editori, aprì felicemente la stagione dei premi, che, come la vostra presenza dimostra, è sempre viva.
Il favore con cui l’iniziativa fu accolta valse a trasformare nel ’90 l’iniziale “Centro Studi Lorenzo e Jacopo Salimbeni per la Storia e la Critica d’Arte”, patrocinato dal Comune di San Severino, in “Fondazione Salimbeni”, con statuto proprio e sede indipendente, messa a disposizione dal Comune.
Se anche di persona Zeri non era spesso a San Severino, seguiva con attenzione costante l’attività della Fondazione; che rapidamente crebbe in prestigio e autorevolezza grazie alla presenza di Commissari come Giuliano Briganti, amico fraterno di Zeri; Raffaello Causa, presenza insostituibile nel Premio anche per le sue doti umane, entrambi precocemente venuti a mancare; come pure Carlo Volpe, loro compagno già ai tempi dell’università; un uomo della qualità, del dinamismo di Pierre Rosenberg; una conoscitrice impareggiabile del nostro Seicento come Jennifer Montagu; Matthias Winner, della Biblioteca Hertziana, firma prestigiosa; e infine, ma solo per chiudere con il suo nome, l’infaticabile Mina Gregori.
La Commissione del “Salimbeni”, formata da quattro italiani e tre stranieri, fu dunque presto in grado di giudicare qualsiasi opera di carattere scientifico che avesse come tema un aspetto o un soggetto dell’arte italiana. Zeri ne rimaneva l’animatore assiduo e in più di un caso l’ispiratore. A lui e a Pierre Rosenberg si deve l’invito rivolto da parte del nostro ambasciatore alla Fondazione per una tavola rotonda nella sede dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, e a un ricevimento in onore della Fondazione stessa, nell’Ambasciata d’Italia.
L’ultima iniziativa, a riprova dell’interesse del grande critico per i fatti artistici delle Marche, si connette in un certo senso con la prima, che fece conoscere un artista della qualità di Fortunato Duranti, nativo di Montefortino. Zeri volle infatti sovrintendere una mostra allestita presso l’Archivio di Stato di Torino a vantaggio delle zone terremotate in Umbria e nelle Marche (settembre 1997), intitolata “Il paesaggio nella pittura umbro-marchigiana tra Cinquecento e Ottocento”.
Il 5 ottobre, prima che si inaugurasse la Mostra, esattamente due mesi fa (la data ricorre oggi), un attacco cardiaco mise fine a un’esistenza ancora piena di propositi, di piani, non avvilita da impietosi malanni.
L’esempio della vitalità, della freschezza di Zeri, della sua curiosità inesauribile, dell’ansia di sapere, di scoprire e insieme di precisare, di non transigere di fronte all’errore, di non accettare il luogo comune, la soluzione di comodo e ancora meno l’insolenza, la prevaricazione, la viltà del potere occulto, la cialtroneria dei falsi esperti: questa è l’eredità lasciata a quanti gli furono vicini, a chi lo conobbe e continua a conoscerlo attraverso i suoi scritti. Così lo ricorderemo noi, per la disponibilità di cui mai è stato avaro, per la sua generosità, non rilevabile a prima vista, per il suo coraggio.
Zeri ha studiato San Severino nella sua storia, nelle sue vicende remote, illustrate da una civiltà pittorica, della quale, dopo secoli, avvertiamo la verità costante, la freschezza, l’intimo legame con la realtà del luogo e in tempi di sradicamento, di negazione e di ignoranza del nostro passato, la contemporaneità.
Federico Zeri ci ha insegnato a come guardare, in particolare, i due fratelli pittori, Lorenzo e Jacopo Salimbeni, dei quali la nostra Fondazione porta il nome e ai quali sono intitolati oggi i Premi assegnati. Egli ci ha insegnato, e più volte ci ha ammonito, a non accettare compromessi subdoli o stoltamente scoperti, a non cedere alle lusinghe della facilità, in certi casi patetiche, e dell’angustia mentale. Per questo lo consideriamo oggi vivo in mezzo a noi, tra quanti siamo qui raccolti.