Giudicare un’architettura, come per un oggetto d’arte, una poesia, un brano musicale, non è operazione del tutto banale. Dire “mi piace” o “non mi piace” è valutazione di tipo estetico e già gli antichi romani avevano derubricato questa azione nel campo delle posizioni inopinabili, affermando: De gustibus non est disputandum.
Per giudicare un’architettura bisogna fare un doppio esame: il primo, più difficile, prevede un lavoro di contestualizzazione, azione che sottintende una seppur minima conoscenza della storia.
Ora, riferendomi alla nota vicenda del chiosco dei giardini pubblici Giuseppe Coletti di San Severino, vorrei precisare che mai ho avuto la pretesa di dire che si tratti di un monumento eccellente, tuttavia nella prospettiva di cui sopra – escludendo quindi da valutazioni “mi piace/non mi piace” vorrei fare alcune semplici considerazioni, che ci possano aiutare a decifrarne il valore.
L’architettura dell’ultimo dopoguerra è debitrice di grandissime trasformazioni dal punto di vista tecnologico ed estetico. Non tutti i tecnici furono pronti e disposti a aggiornarsi; forse l’ingegner Luigi Cona, progettista del chiosco in qualità di tecnico comunale, questo sforzo aveva deciso invece di farlo. E in questo edificio – forse più che in altri lavori, vista la libertà che il tema e le ridotte dimensioni gli consentivano – ebbe la brillante intuizione di fondere e contaminare elementi strutturali moderni con le tecniche costruttive antiche. Questi sono gli ingredienti che ha usato, mentre la ricetta è stata desunta sicuramente dal codice progettuale razionalista, nella declinazione forse più originale e audace, legata a De Stijl e alla derivata maniera progettuale di Mies Van Der Rohe, esplicitata in modo esemplare nel padiglione dell’Expo’ di Barcellona. Mi rendo conto che i riferimenti sono alti, soprattutto se riferiti al piccolo chiosco dei nostri giardini pubblici, tuttavia l’ingegner Cona in questa costruzione ha dimostrato di conoscerli e di saper trarre da loro ispirazione, senza cadere in un mero esercizio di copiatura. Tra gli spunti che lui ha tratto dai grandi maestri dell’architettura vorrei segnalare anche l’arguta citazione del Modulor di Le Corbusier, che inequivocabilmente si ritrova in quelle figure umane intagliate nel pieno della muratura, una delle quali addirittura passante. Del chiosco colpisce la composizione della pianta, fatta di setti separati, attraverso i quali si apre l’ampia vetrata tipica espressione del razionalismo architettonico. Al di sopra di questi elementi murari spicca un solaio in calcestruzzo armato a spessore variabile, profilato secondo la linea degli sforzi; questo lavoro si mette nella scia dell’ingegneria delle ricerche compiute proprio in quegli anni dal più architetto degli ingegneri, ovvero Pierluigi Nervi. Le innovazioni tecnologiche ricordate si fondono a meraviglia con una messa in opera a mosaico dei maschi murari, eseguiti con maestria dal sapiente capomastro, che sarebbe interessante individuare. Sarebbe oggi impossibile, in primo luogo per ragioni economiche, pensare di poter realizzare un apparecchio murario così elaborato. Stupisce – ma forse nemmeno tanto, visto il ruolo che in questa vicenda riveste chi l’ha scritta – quanto si legge nella relazione di accompagnamento alla costruzione in progetto; l’attuale chiosco viene bollato semplicemente come “architettura poco attrattiva costruita negli anni ‘60”.
Questo mix sapiente di tecniche costruttive si è rivelato anche efficace dal punto di vista della risposta antisismica, considerato che il piccolo padiglione – perlomeno per quanto si può desumere dal solo esame esterno – non dimostra aver subito lesioni strutturali dal recente sisma. La nota stonata sono di certo quegli orrendi infissi di colore bianco, spropositati nelle sezioni, ma soprattutto incongrui con l’aspetto generale del padiglione, tanto da impedirne la percezione del pregio volumetrico.
In secondo luogo – tornando al duplice aspetto nell’esame del valore di un’architettura – a differenza delle altre arti, questa si deve giudicare anche dal punto di vista della funzionalità, altrimenti sarebbe una semplice scultura di grandi dimensioni. Il padiglione esercita in maniera egregia la sua funzione di chiosco, così come era stato progettato, affermazione senza dubbi fatta sulla stampa locale da chi lo ha gestito per molte estati. Un eventuale ampliamento di natura funzionale potrebbe essere eseguito sul retro, dove è un prospetto volutamente lasciato indefinito, proprio in funzione di una sua potenziale modifica. Questo ci permetterebbe di conservare questo manufatto, la cui parte anteriore potrebbe essere restaurata con poca spesa. Se ci accingessimo a demolire questo chiosco, così come avvenuto per l’altro di forme neogotiche che oggi tutti rimpiangiamo, tra cinquanta anni coloro che frequenteranno il giardino si troveranno nella stessa condizione, cioè a rievocare con dispiacere la perdita di questo piccolo scrigno di sapienza architettonica, piccolo ma non per questo non di valore.
In conclusione, dopo le effettuate verifiche di firmitas e utilitas, possiamo aggiungere ora la terza categoria vitriuviana riferita all’architettura, ovvero la venustas, che in conseguenza dell’ormai ineludibile etica progettuale funzionalista, dovrebbe valutarsi solo in conseguenza alla contemporanea presenza delle prime due. Ai posteri il giudizio sull’inutile sacrificio di qualcosa di valore per molti, in nome dell’irrefrenabile narcisismo di qualcuno.
Luca Maria Cristini