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Il busto di Ettore Marcucci al cimitero di San Severino
Il busto di Ettore Marcucci

Storia locale (2): Ettore Marcucci letterato e traduttore

di Alberto Pellegrino

(seconda parte)

Ettore Marcucci, dopo avere abbandonato le scene liriche intorno al 1850, si stabilisce a Firenze e sposa il soprano Clorinda Martelli. Da questo matrimonio, che finirà con una separazione, nascono tre figlie. Letizia sposa il direttore d’orchestra Carlo Graziani Walter e fa probabilmente da madre alle due sorelle più piccole (“Sparsero il cielo e la natura insieme/In te, Letizia del mio cor paterno, /Come un fertil terreno ogni bel seme…/Quasi tu madre, in un, figlia e sorella, /Tutto sgombrar l’antico orror funesto, /Rifulgi ai lari miei provvida stella”, Versi, op. cit., p. 384). La seconda Severa (1851-1939) diventa un’apprezzata pianista e due sue composizioni Barcarola e Tanto gentile e tanto onesta pare si trovano nella biblioteca dell’Accademia di S. Cecilia a Roma. Infine Felice (1862-1880) nasce con una salute malferma e muore ancora bambina (“Tu vittima innocente/D’una perversa immanità del fato…/La colpa espii di non aver peccato: /Nascesti per soffrire …/Né al morir tuo più manca altro che morte”, Versi, op. cit., p. 383).
A Firenze Marcucci si dedica alla letteratura e dà alle stampe nel 1880 il volume Versi (Barbera), dove raccoglie la sua produzione poetica. Si tratta di una poesia legata soprattutto a Foscolo e Carducci, che non presenta un carattere lirico, ma serve a esprimere sentimenti amorosi, a esaltare legami familiari e amicizie; racconta fatti e personaggi legati alla propria vita; manifesta l’affetto che lega l’autore alla città natale e agli uomini illustri che hanno onorato la sua storia. Marcucci nei suoi versi esalta le virtù dell’onestà, della libertà di pensiero e della coerenza, scagliandosi contro l’ipocrisia, la viltà, la prepotenza, l’arrivismo presenti nella società del suo tempo (“Dell’italico censo ecco gli zeri:/Sedici milion d’analfabeti;/Il resto professori, cavalieri, /Salariati, gabbamondi e preti”, Versi, op. cit., p. 367). Cattolico praticante, rifiuta ogni forma di clericalismo e di fanatismo religioso, adottando il motto “Idio, patria, famiglia”. Scrive versi patriottici, invocando libertà per la “Sublime Patria, Italia cara, /Sultana ed arbitra de’ miei pensier”, che ora è ridotta una “vile ancella have discinta i panni/Sparse le chiome ed è travolta al fango”. Inneggia a Pio IX quando accende le speranze per un’Italia libera e indipendente e successivamente condanna il suo voltafaccia politico: “De’ servi il servo che ti crede esangue, /Con lancia al seno in Vatican ti fora, /Onde l’ultime stille escan di sangue” (Versi, p. 60). Esprime la sua ammirazione per I Martiri dell’indipendenza italiana (Versi, pp. 222-224) e la sua soddisfazione per la alla Patria redenta, dedica alcune composizioni a Giuseppe Garibaldi e a Vittorio Emanuele.
Marcucci collabora come autore e traduttore con l’Editore Barbera per il quale pubblica le antologie Prose moderne ad uso nelle scuole (1883), Crestomazia di Prose del Trecento (1887) e il saggio Pietro Metastasio. Drammi scelti (1887). Grazie alla sua preparazione letteraria e alla conoscenza delle lingue straniere, impartisce lezioni private di italiano, latino, greco, inglese, spagnolo e francese. Viene nominato Accademico della Crusca ed entra a far parte di alcuni circoli letterari fiorentini.
Ettore Marcucci muore l’8 giugno 1891 e il 9 giugno il Consiglio Comunale di San Severino Marche scrive alle figlie, ricordandolo come “illustrazione repubblica letteraria, orgoglio e decoro della sua città nativa”. Viene sepolto nel Cimitero delle Porte Sante a Firenze e nel 1893 le figlie fanno erigere una stele funebre sormontata da un busto dello scrittore opera dello scultore Alessandro Lazzarini, sullaquale è incisa l’iscrizione “ETTORE MARCUCCI. Ingegno eletto, nativo di San Severino Marche, poeta sommo/prosatore classico la cui sterminata dottrina sta nelle opere/che dettò nella sua prima giovinezza, /ebbe fama di cantante e l’angelica sua voce parve eco di paradiso. /L’ottavo giorno di giugno del 1891 dopo crudeli sofferenze/serenamente spirò. /Lasciando alle desolate figlie Severina e Letizia, /che tanto l’amarono/memorabile ricordo della più cristiana rassegnazione”.

Il traduttore

Non si completa la figura di questo personaggio, che ha dedicato tutta la vita alla alla musica e alla letteratura, senza ricordare anche l’intensa attività svolta da Marcucci come traduttore di opere poetiche in lingua francese, inglese e tedesca. Hanno una particolare importanza le tradizioni dal polacco che nascono da un profondo legame tra Marcucci e la cultura polacca soprattutto per la sua vicinanza agli esuli polacchi residenti a Firenze. Egli traduce le opere del poeta Laszlo Kulczycki Elegia antica alla poetessa Alinda Bonacci Brunamonti dopo una passeggiata alle fonti del Clitumno (Rivista Europea, 1873), Versi polacchi (Firenze, 1874), Copernico (Firenze, 1874), Pompei. Elegia antica. Il Palazzo di Nerone, Isella (traduzione fatta con Alida Bonacci Brunamonti, Firenze, 1897), l’antologia Poesie tradotte da vari e raccolte da Arturo Wolynski (Firenze, 1879). Il suo lavoro più importante è la tradizione delle Poesie polacche di Teofilo Lenartowicz recate in versi italiani da Ettore Marcucci (Barbera Editore, Firenze, 1871) dedicate “all’eroica ed infelice nazione polacca con riverente affetto”. Il merito di questo lavoro è di aver fatto conoscere in Italia le opere di un poeta, che Marcucci chiama “amico suo come fratello” e che vive in esilio a Firenze. In apertura del volume il traduttore dedica un sonetto alla Polonia: “E voglion dir che la Polonia è morta; /Ma uccider tutto un popolo chi ‘l puote? /Dio fa le trame de’ tiranne ir vuote: /Parve anco l’Italia in tomba, ed è risorta…/Tu solo, esule illustre, all’Arno in riva, /Tu all’immemore Europa e al secol vano /Basti a mostrar che la Polonia è viva”.
La grande poesia romantica polacca è rappresentata da Adam Mickiewicz (1798-1855), che ha esaltato la sua nazione con spirito nuovo, rifacendosi alle tradizioni e alla letteratura popolare per coglierne simbolismi e suggestioni. La sua poesia esalta il rigore morale, il desiderio di libertà, il rinnovamento spirituale della società e rappresenta la Polonia come l’agnello sacrificale dell’umanità che incarna il messia dei popoli (il Cristo delle nazioni), una nazione portatrice di valori eterni e capace di sconfiggere l’oscurantismo clericale.
Su questa strada si colloca Teofilo Lenartovicz (Masovia 1822- Firenze 1893) che si forma a Varsavia nei circoli dei giovani poeti che predicano l’insurrezione contro l’Austria e la Russia. Nel 1848 è accusato di essere un cospiratore e deve abbandonare la Polonia per rifugiarsi in diversi Paesi per poi arrivare a Roma nel 1855. Nel 1860 si stabilisce a Firenze, dove svolge l’attività di scultore (alcune sue opere si trovano nella Chiesa di S. Croce) e dove nel 1870 pubblica la raccolta di poesie Album italiano. Dal 1879 al 1883 insegna letteratura polacca e slava nell’Università di Bologna.
Nel tradurre Lenartovicz Marcucci vuole metterne in evidenza la vena lirica e la musicalità del verso, qualità per le quali è stato definito lo “Chopin della poesia polacca”. Marcucci traduce poesie già note e altre inedite, affermando che le composizioni sono state scelte per rappresentare i loro contenuti lirici e fantastici, elegiaci e narrativi, ma soprattutto patriottici, perché “In que’ voli dalla rive del Tevere e dell’Arno a quelle della Vistola, tu ravvisi una rondinella pellegrina che ritorna al suo nido: è il cuore dell’esule che batte sempre la corda del dolore”.
Nei versi “italiani” di Lenartovicz appare l’amore per il paesaggio e la natura, il fascino per l’antica Roma (L’arco di Tito, La cupola di San Pietro) e l’ammirazione per alcuni poeti che si sono battuti per la libertà dei popoli; nella composizione I poeti del Colosseo in una notte di maggio vede apparire gli spiriti di Mickiewicz, Goethe, Dante, Byron. Il tema della libertà e dell’indipendenza viene trattato nei due poemetti Alina o L’annuo tributo e Le tre sorelle, che prendono spunto dalla tradizione popolare per mostrare l’amore verso la patria lontana: “Il volo tuo, O Canto di mia Patria, io riconosco. /Tu del popolo in cor…risuoni, /Festeggevol sui prati, e lagrimoso/A’ piedi dell’altare. Ed allor quando/Fischian le palle e la battaglia ferve/resister sai fino al momento in cui/ne vieni messager della vittoria…/Oh canto, oh vera/Del popol vita, e di sua forza imago…/Popolo e Canto, /Voi consolate, unicamente voi, /la mia vita quaggiù d’eterei sogni”.
Il poeta è animato anche da una profonda fede cristiana che si manifesta nella composizione Quo vadis? (1871), nella quale anticipa alcuni temi dell’omonimo romanzo dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz, pubblicato nel 1896 e ambientato nella Roma di Nerone, un’opera che darà all’autore fama internazionale e lo porterà a conquistare nel 1905 il Premio Nobel.

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