Lo vogliamo ricordare così, con la Coppa dei campioni in mano, perché pure lui è stato un “campione di vita”, brillante e attento al mondo che lo circondava, nonostante i numerosi acciacchi fisici che da tempo lo facevano tribolare. Gabriele Montedoro ci ha lasciati questa notte, all’età di 76 anni. Lascia la moglie Teresa Domizi (nipote dell’indimenticato don Quinto Domizi), un fratello e una sorella, cognate e cognati, nipoti e altri parenti, residenti in particolare a Treia, suo paese d’origine.
Gabriele aveva tante passioni, era curioso della vita e amava leggere, fra l’altro, il nostro Settempedano. Pure a lui piaceva scrivere e spesso prendeva carta e penna oppure accendeva il computer per buttar giù articoli da inviare a “L’Appennino camerte”, il Resto del Carlino, Il Settempedano.
Assieme alla moglie Teresa e ad altri amici ha fondato il Gruppo Acli di San Severino.
Pochi giorni fa sulla sua pagina Facebook, attraverso la quale era diventato anche lui piuttosto social, aveva voluto ricordare la figura del padre. Vogliamo condividere le sue parole perché in esse troviamo l’umanità e i valori che hanno sempre contraddistinto Gabriele.
DA TREIA A DACHAU
Il primo dovere è non dimenticare: quando non ci saranno più testimoni, come faremo a ricordare ?
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Armando Montedoro
A quindici anni dalla morte (25 febbraio 2006) e nel presente momento storico, le scarse parole di un breve racconto lasciate da mio padre Armando andrebbero conservate come doni preziosi. I ricordi di un deportato sopravvissuto dovrebbero infatti essere incisi con l’inchiostro rosso nei libri di storia per rimanere indelebili e rimarcare la ferocia nazista che potrebbe, seppur in diversa forma, riproporsi anche oggi.
Tutto iniziò con la parola “rastrellamento” che nel lessico o gergo militare significa un’azione eseguita da unità minori o pattuglie soprattutto per la ricerca sistematica e organizzata, finalizzata alla cattura di persone e nella fattispecie di elementi civili da destinare, se validi, ai lavori forzati in condizioni di vera e propria deportazione. E questo è quanto avvenne a Treia il 3 maggio 1944, nell’ambito territoriale della provincia di Macerata fatta oggetto dei primi rastrellamenti da parte delle SS e di reparti della Rsi. La gente veniva quasi sempre prelevata di notte nelle case e fatta salire sugli autocarri senza vestiti e senza scarpe. Erano ore di terrore per i poveri giovani e anziani per i quali la prima destinazione era il campo di concentramento di Sforzacosta, ma se non c’era posto i rastrellati venivano fatti proseguire per altre sedi o addirittura per la Germania. Il trasferimento sugli autocarri era disumano: privi di qualsiasi servizio igienico e senza viveri. Armando cercò di nascondersi nella propria abitazione alle Strade Basse, ma non servì a salvarsi dalla cattura perché chi lo cercava era stato bene informato dai fascisti collaborazionisti delle SS. Prima destinazione la prigionia nel famigerato campo di Dachau dove prestò lavoro coatto come schiavo di Hitler (I.M.I.) e utilizzato nei sottocampi di Kempten, Stoccarda e Norimberga agli ordini dell’Organizzazione Todt, in particolare in lavori manuali per il ripristino di strade, ponti e stabilimenti danneggiati dai bombardamenti alleati. Lasciò Dachau il 29 aprile 1945, giorno della liberazione del campo da parte degli americani e si unì, con la poca forza rimasta in corpo, al coro di “ la guerra è finita”. Rientrò in Italia a metà maggio 1945.
I funerali di Gabriele saranno celebrati domani, venerdì 5 marzo, alle ore 10, nella chiesa di San Domenico.