Paolo Zagaglia, regista belga originario di San Severino, è da lungo tempo nel campo del cinema indipendente. Ha collaborato con diverse TV e ha realizzato numerosi film, premiati in vari festival. Recentemente, ha vinto il premio Miglior documentario al San Giò Verona video festival 2020, con l’opera “ILS 77-20”: un docufilm che racconta il passato di un quartiere belga attraverso i ciottoli delle strade, le finestre e le parole della voce narrante. Oggetti che si fanno soggetti, capaci di racchiudere un’epoca e, al tempo stesso, pronti ad aprire ad un futuro non prevedibile, ma tutto da vivere dalle persone che abiteranno in quei luoghi.
Abbiamo intervistato Paolo per farci raccontare il suo lavoro e la sua storia.
Paolo, lei è nato e vive in Belgio, ma i suoi genitori sono originari di San Severino. Ci parli brevemente di lei: la sua storia, la sua formazione, il suo legame con la città settempedana.
«Sono nato in Belgio, ma quando avevo tre anni i miei sono ritornati a San Severino dove ho vissuto fino a nove anni, frequentando in Italia i primi tre anni di scuole elementari. Così, nella mia testa, è come se fossi nato a San Severino. Poi i miei studi sono proseguiti in Belgio fino all’Università, ottenendo la laurea in letteratura. Ma, fortunatamente o no, mentre scrivevo la mia tesi sulla poesia di Cesare Pavese, ho seguito uno “stage” pratico sul video e così, dal 1974 in poi, il mio mestiere è stato quello di video regista in diverse TV locali. Ogni anno ritornavo per le vacanze a San Severino, città che mi ha sempre affascinato: possiedo una grande collezione di libri sulla storia e sui personaggi della città. Un anno girai anche un film in Super8 con gli amici che mi ero fatto, film che non hanno mai visto perché non ho mai avuto il tempo di montarlo».
Più precisamente, quando è nata la sua passione per il cinema? Quali sono gli autori e i registi che ha maggiormente a cuore?
«La mia passione fu precoce. Mi ricordo che quando avevo sette anni e vivevo con i miei genitori in via Massarelli, loro mi lasciavano già andare da solo, la domenica pomeriggio, a vedere i film al vicino Cinema San Paolo. Da allora non ho mai smesso di andare al cinema: a forza di vedere film, quando poi ho avuto l’opportunità di fare quello stage di video, ho capito subito che quella era la mia via. Avendo visto tutti i più importanti film dei più grandi registi in una sessantina d’anni (minimo una decina di film a settimana), ho amato molti registi e molto differenti tra di loro. Tra gli italiani citerei Moretti, Bertolucci, Scola, Avati, Fellini, Sorrentino, Leone, e tanti altri. Tra gli stranieri Scorsese, Coppola, Penn, Egoyan, Godard, Welles, Truffaut, Renoir, Guédiguian, Bertrand Blier, Kiarostami, Kurosawa, senza dimenticare il Neorealismo che ha alimentato la mia sensibilità cinematografica».
Il suo ultimo documentario, “ILS 77-20”, ha vinto il premio come Miglior documentario al San Giò Verona video festival 2020. Ci dica qualcosa di questa sua opera: come è nata, cosa racconta?
«“ILS 77-20” ha una strana storia. L’ho girato nel 1977, con i mezzi tecnici del tempo che erano assai rudimentali paragonati a quelli di oggi. Lavoravo all’epoca in una televisione locale di Verviers, città che aveva accolto molti immigrati italiani, quelli che erano fuggiti dal fascismo negli anni Venti e quelli del Dopoguerra. Molti abitavano in un quartiere che fu chiamato “quartier des Italiens”. Il Belgio aveva accolto questi italiani a una condizione: non fare mai politica, altrimenti sarebbero stati immediatamente rispediti in Italia. Quando filmai nel 1977, non c’erano più italiani nel quartiere perché si erano integrati nella società belga. Allora, ho filmato il quartiere e ho scritto un testo poetico-politico che diceva ciò che gli immigrati non avevano mai potuto dire. Quando l’ho rivisto durante il Covid-19 mi è venuta l’idea di filmare di nuovo il quartiere, aggiungendo un testo che dice che il quartiere oggi è abitato da altri immigrati che, come gli italiani all’epoca, sperano in una vita migliore. Mio figlio Marco, anche lui cineasta, ha filmato le strade e i luoghi che non sono cambiati. Questo confronto tra il passato e il presente, tra tecnica di allora e di adesso, prova che nulla è cambiato nella società belga, che le cose si sono soltanto un po’ “spostate”, perché gli italiani sono stati rimpiazzati da magrebini, africani, turchi e slavi».
Non solo “ILS”, ma tutti i suoi lavori sono fortemente incentrati sul tempo, sui ricordi e sulla memoria. Quali altri suoi film sono stati premiati e quali ricorda con più affetto?
Infatti, il tempo, i ricordi e la memoria sono i miei temi prediletti perché la nostalgia del mio passato occupa molto la mia mente e il tempo che passa, o lentamente o rapidamente, secondo quello che si vive, rimane per me un mistero. Tra i miei film premiati devo citare in primo luogo “Bella ciao, il silenzio dei comunisti” che è stato girato per una buona parte a San Severino e poi in Toscana, Emilia-Romagna, Veneto e nel Friuli. Per me è stato un film molto importante, come lo fu “Regards”, un lungometraggio di finzione con più di venti attori che sono riuscito a realizzare con meno di 10.000 euro. “Une saison de myrtille et d’airelles. Apollinaire a Stavelot” è il film che è stato il più visto e ricorderei anche “Trittico finale”, un cortometraggio: questi due ultimi film sono stati giudicati come Miglior film al Festival San Giò di Verona, rispettivamente nelle edizioni 2016 e 2017. Comunque, è evidente che tutti i miei film li ricordo con affetto perché sono stati momenti felici di creazione e perché parlano tutti della mia vita, anche se in un modo artistico che cancella tutti i cenni autobiografici».
I film sono spesso una sintesi dei desideri e dei rimpianti dell’autore: una fittizia realtà creata dal regista per rappresentare la vita secondo i propri desideri e le proprie visioni, dove l’artista si sente pienamente a suo agio. François Truffaut, nel film “Effetto notte” (“La nuit américaine”), afferma: «I film sono più armoniosi della vita, Alphonse: non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti. I film vanno avanti come i treni, capisci? Come i treni nella notte. La gente come me e come te, lo sai bene, siamo fatti per essere felici nel nostro lavoro del cinema». Anche per lei è così?
“Assolutamente. Per me il cinema, come la letteratura, è un modo per esprimermi, per dire delle cose sia emotive che politiche. Se dicessi queste cose banalmente, come tutti, non avrebbero nessun impatto. Invece, il cinema permette di mettere quel filtro artistico che rende più percettivo lo spettatore e lo coinvolge permettendogli di riflettere, o di piangere per esempio: quello che non avrebbe mai fatto se la cosa fosse stata detta semplicemente. Con il cinema puoi far capire tante cose, perché l’arte riesce a toccare il cuore dello spettatore».
Parliamo della situazione attuale. Con la diffusione capillare delle piattaforme web per la visione in streaming, la gente va sempre di meno al cinema. Ciò già stava accadendo da prima della pandemia Covid-19, ma ora tale fenomeno è destinato ad accentuarsi ulteriormente. Cosa ne pensa di questa situazione, è l’inizio di un nuovo, e radicalmente diverso, modo di fare e di intendere il cinema?
Infatti, le cose stanno cambiando e non certo nel buon senso, secondo me. Già negli anni Settanta Jean-Luc Godard diceva che guardare un film alla televisione era come guardare la tela di un grande maestro riprodotta su di un francobollo. Per me, il cinema esiste solo sul grande schermo e guardarlo in TV, sul computer, o peggio ancora su di un telefonino, è un’eresia che può solo essere utile per “ri-vedere” un film che non è più visibile in una sala. Non penso che un giorno il cinema in sala sparirà, perché ci saranno sempre degli appassionati che sapranno fare la differenza, perché per loro, come diceva Godard che resta il mio punto di riferimento più importante: “Il cinema è ventiquattro volte la verità al secondo”».
Richiesta finale di rito e leggermente malandrina: ai giovani che vogliono intraprendere la carriera cinematografica, dia qualche consiglio che ritiene fondamentale.
“Certo, ci sono le scuole di cinema, ma penso che non siano l’unico modo di fare cinema. Io direi che bisogna avere il cinema in sé, in un certo qual modo pensare sempre cinema. Consiglierei ai giovani di guardare i film dei grandi cineasti, e anche rivederli molte volte attentamente. Poi ci sono le letture: interviste, biografie, libri tecnici e di sceneggiatura. Ma, soprattutto, bisogna avere molta curiosità, guardarsi intorno, osservare la gente per poi saper raccontare le loro storie attraverso il prisma del cinema con i suoi codici, talvolta alterandoli. La cosa più importante è fare un cinema sincero, con le emozioni che hai in te, e terminerei con una citazione che mi sembra di Godard, anche se non sono sicuro, ma che ho fatto mia: “A nulla serve fare un film onesto se non lo fai onestamente”».
Silvio Gobbi