La precarietà nel mondo del lavoro è sempre più diffusa, tra i giovani e non solo. La politica ne parla poco: anche i recenti «Stati Generali» non hanno trovato soluzioni chiare. Ma il problema è molto più antico, anteriore all’attuale globalizzazione ed alla crisi che perdura dal 2008 (oggi acuita dalla pandemia mondiale): questi eventi sono solo dei catalizzatori di una condizione pregressa, già esistente, che ha costantemente fluttuato nel tempo. Ed il libro Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana, di Eloisa Betti (dottorato di ricerca in Storia d’Europa, docente a contratto di Storia del lavoro all’Università di Bologna) riesce a donarci uno sguardo più ampio della situazione. Analizza la precarietà come problema di lungo periodo, capace di toccare tutti i lavoratori: contadini, operai, insegnanti, artigiani e, particolarmente, le donne di ogni categoria. Come gli studiosi della “Global Labour History” (Marcel van der Linden e molti altri) hanno dimostrato da più di vent’anni, la precarietà è un problema che affligge l’uomo da sempre: nel tempo e nello spazio, varie forme di precarietà si sono succedute dal mondo antico a quello contemporaneo. La precarietà è stata (ed è) la norma nella storia del mondo del lavoro, la stabilità è l’eccezione: soltanto nella seconda metà del secolo scorso si è imposta come obiettivo da raggiungere.
Il libro della professoressa Betti sviscera ed analizza, in sei capitoli, le forme di precarietà che hanno caratterizzato (e caratterizzano) la storia della nostra Repubblica sin dalle sue origini. Il viaggio del libro parte con la brillante indagine di Paolo Sylos Labini nel mondo del lavoro siciliano. Negli anni Sessanta, egli mise in luce la precarietà come realtà diffusa e come principale causa del freno dello sviluppo, perché «L’instabilità e la precarietà delle occupazioni impediscono ogni sforzo di miglioramento sistematico ed ogni iniziativa risulta scoraggiata» (p. 30). Da ciò, la necessità di favorire l’occupazione stabile tramite l’industrializzazione. Questo accadde tra gli anni Cinquanta e Sessanta: il problema della precarietà divenne sempre più evidente e intollerabile. In questi anni si susseguirono indagini, commissioni parlamentari, manifestazioni, scioperi. Ed arrivarono i primi risultati, con le prime leggi approvate dal Parlamento per tutelare i lavoratori e le lavoratrici. Chi dice che indagare, manifestare, studiare, analizzare, scioperare, farsi sentire è inutile, non conosce sufficientemente la storia. In questi decenni, emerse la voce delle donne: la categoria maggiormente penalizzata. Secondo la mentalità del tempo, compito fondamentale della donna era quello di fare bambini e gestire le faccende domestiche: al massimo le era concesso qualche lavoro a domicilio, ma il grosso del denaro doveva essere guadagnato dall’uomo (ancora oggi, tale visione è più presente di quanto sembri). Le rivendicazioni della CGIL, della UDI (Unione Donne Italiane), del PCI, delle ACLI, delle donne come Nilde Iotti, Donatella Turtura e Luciana Castellina (e non solo loro), furono fondamentali per cominciare a capovolgere questo paradigma datato, cercando di superare questa visione del «“pieno impiego” declinato unicamente al maschile» (p. 43), affinché le donne non fossero più schiave del modello «[…] subalterno e transitorio del lavoro femminile […] garantito mediante una serie di strumenti […] della politica padronale quali: i contratti a termine, licenziamenti per matrimonio, il lavoro a domicilio, e così di seguito» (p. 44).
La marcia verso il lavoro stabile proseguì. Una lotta partita da lontano. Da Giuseppe Di Vittorio e Teresa Noce, quando chiesero la fissazione dello stipendio minimo garantito per i lavoratori e la parità salariale tra uomo e donna, e dall’inchiesta parlamentare negli anni Cinquanta sulla situazione lavorativa in Italia. Una lunga indagine che portò alla luce come il contratto a termine venisse utilizzato da molti imprenditori «[…] non già per ragioni inerenti alla organizzazione produttiva e funzionale dell’azienda […] ma con l’intento di sottrarsi a vincoli e oneri, che derivano dal contratto a tempo indeterminato» (p. 63). Di conseguenza, negli anni Sessanta nacquero le norme fondamentali contro i licenziamenti ingiusti: il divieto di licenziamento per matrimonio (1963) e per motivi politici e sindacali (1966). Nel 1970 si giunse ad un punto cruciale della legislazione del lavoro in Italia: la nascita dello Statuto dei lavoratori, con il tanto noto articolo 18 sulle norme di licenziamento. L’apice della storia del garantismo lavorativo italiano. Un passo fondamentale che, però, non riguardò tutti i lavoratori, ma soltanto quelli delle aziende più grandi.
Ma poco dopo l’approvazione di questo Statuto, cominciò la crisi degli anni Settanta: le aziende erano in perdita e la disoccupazione aumentò. Anni Ottanta, anni della flessibilità: abbattere il costo del lavoro dopo la crisi degli anni Settanta divenne il caposaldo delle politiche economiche e del lavoro. Iniziò così il progressivo indebolimento del fronte garantista: bisognava aumentare la flessibilità, almeno in entrata. Dall’area socialista, e non solo, diminuire il costo del lavoro venne visto come l’unico modo per favorire il profitto e indurre le aziende ad assumere. La “flexible firm” di Atkinson si propagò, le riforme di Craxi aprirono a questa visione: favorire le assunzioni garantendo minori vincoli alle aziende. Contratti part-time e a termine per i giovani, in modo tale da «[…] introdurre strumenti flessibili per facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro, per combattere la disoccupazione (in primis giovanile)» (p. 135). Dal “garantismo promozionale” al “garantismo flessibile”. Addirittura parte dei sindacati e della sinistra aprirono alla flessibilità. In quegli anni, anche per la CGIL «[…] la contrattazione deve promuovere una maggiore flessibilità, giornaliera, settimanale, annuale, con periodi di allontanamento dal lavoro più distribuiti durante l’anno per incontrare le diverse esigenze» (p. 150).
Tra gli anni Novanta e Duemila, atti come il pacchetto Treu (1997) e la legge Biagi (2003), portarono avanti lo sviluppo di forme di lavoro meno stabili, agognando la “flexicurity” (“flessicurezza”): il paradigma intento a coniugare flessibilità nel lavoro (per spingere le aziende ad assumere) e sistemi di sicurezza sociale nei periodi di disoccupazione. Un obiettivo mai raggiunto. Come ha evidenziato il documento, del 2006, “I giuristi e il Libro verde”: «non c’è alcuna provata correlazione tra allentamento dei vincoli sulla flessibilità in uscita e aumento della propensione delle imprese ad occupare» (p. 156). Le modifiche introdotte dalla legge Biagi (legge 30/2003) vollero creare una maggiore flessibilità per nuovi e vecchi assunti, introducendo anche nuove tipologie di forme non stabili, come il lavoro accessorio. Ma di Biagi spesso ignoriamo che, nello studio iniziale suo e di Tiraboschi per uno “Statuto dei lavori”, era presente un nucleo di tutele per nulla preso in considerazione nella legge finale, volto a garantire la «tutela del lavoratore come persona (libertà di organizzazione, associazione e attività sindacale); la salute e la sicurezza sul lavoro; il diritto alla formazione continua; le norme antidiscriminatorie; le pari opportunità; la tutela della maternità; l’accesso gratuito alle informazioni del mercato del lavoro e ai servizi per l’impiego; una retribuzione minima stabilità per legge; un’indennità minima di trattamento di fine rapporto; la tutela graduale in caso di sospensione del rapporto di lavoro» (p. 171). Prese vita soltanto il lato più “flessibile” del progetto, e con il tempo la precarietà dei lavoratori e delle lavoratrici si fece sempre più massiccia. Il breve governo Prodi non riuscì a realizzare pienamente gli obiettivi preposti per ridurre la precarietà. Successivamente alla crisi del 2008, l’instabilità è diventata la costante del mondo del lavoro, tanto che, per fare un esempio, tra il 2009 ed il 2010, «i contratti a termine erano aumentati (+850.000)» (p. 192). La legge Fornero (2012) e il Jobs Act del governo Renzi (2014-15), hanno ulteriormente rafforzato la precarietà odierna, in ogni ambito lavorativo (quest’ultimo atto ha mutato radicalmente il famoso articolo 18).
Questo è, a grandi linee, il corpus del libro. Un testo preciso e fittamente documentato: un libro di storia che chiarisce il passato ed il presente, tramite fatti e dati ben chiari. «Chi è precario è costantemente sotto ricatto del datore di lavoro, è perennemente insicuro. […] bisogna recuperare il concetto di “riscatto del lavoro”: si ha il diritto di lavorare, certo, ma non a qualsiasi condizione. Il lavoro non può essere elargito come un favore dall’impresa, il bisogno di lavorare non può essere un pretesto per venire mortificati e umiliati». Così scriveva Stefano Rodotà (p. 165). Questo articolo è del 2006, e dato il percorso che abbiamo ora visionato, potrebbe essere stato scritto cinquant’anni fa o secoli addietro: mestamente attuale, la precarietà odierna è la stessa ed ha gli stessi effetti di quella analizzata da Sylos Labini. Un lavoro instabile è il segno di un mondo instabile. L’insicurezza, la vita a credito, senza nulla di concreto e continuo, la “paura liquida” di Bauman è ormai la regola italiana e globale. «Uno stato d’instabilità definitiva», così lo storico Lucien Febvre descriveva il mondo contemporaneo e Paul Valéry diceva che viviamo sospesi tra «[…] un passato da cui non possiamo trarre quasi nulla che ci orienti nel presente e ci faccia immaginare il futuro. Dall’altro lato, un futuro privo di qualsiasi figura»: due visioni tremolanti del tempo, fragili. La precarietà porta alla disaggregazione, all’assenza di legami forti nel lavoro come nella vita: «La società individualizzata è contraddistinta da una dispersione dei legami sociali, che sono il fondamento dell’azione solidale. Essa si distingue anche per la sua resistenza a una solidarietà che potrebbe rendere tali legami durevoli e affidabili» (Zygmunt Bauman). Una vita sempre più cupa e molecolare, atomica. La precarietà porta ad una vita materialmente più povera e ad una società sempre più individualizzata: ci si chiude in sé, nella propria mancanza di lavoro e di sicurezze da esso derivanti. Siamo stati e siamo “precari e precarie”: così è scritto nel testo ed è palese nella vita di tutti i giorni. Ma non è detto che, per forza, per sempre lo saremo: anche questo è scritto nel libro.
Silvio Gobbi
Informazioni editoriali
Eloisa Betti, Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana, Roma, Carocci editore, 2019, pp. 268.