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Home | Cultura | La recensione del film “1917” di Sam Mendes
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Un'immagine del film "1917"
Un'immagine del film "1917"

La recensione del film “1917” di Sam Mendes

Pubblicato da Mauro Grespini in Cultura 1,472 Visite

6 aprile 1917. Due giovani caporali britannici di stanza nel nord della Francia, Tom Blake (Dean-Charles Chapman) e William Schofield (George MacKay), hanno il compito di consegnare un messaggio del generale Erinmore (Colin Firth) al colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch) per fermare l’imminente attacco di 1600 soldati inglesi: se i giovani dovessero fallire la missione, l’intero reggimento del colonnello cadrebbe in una trappola senza scampo studiata dai tedeschi. Tom è motivato più che mai a consegnare il messaggio: sotto il comando di Mackenzie c’è suo fratello, il tenente Blake. Il viaggio dei due giovanotti è una missione suicida: dovranno attraversare un territorio pericoloso, popolato da alleati e nemici, affrontando la morte e sbattendo contro la cecità degli alti ufficiali.
1917, di Sam Mendes, ha vinto due Golden Globe: “Miglior film drammatico” e “Miglior regista”. La forza di questa pellicola dimora interamente nella tecnica con cui è realizzata: un (finto) unico piano sequenza di due ore, costruito con più piani sequenza montati in modo tale da non far percepire alcuno stacco. Tutto il fascino del film risiede nella precisione di Mendes e del direttore della fotografia Roger Deakins (premio Oscar “Miglior fotografia” per Blade Runner 2049): senza il loro gigantesco lavoro, l’opera non avrebbe avuto lo stesso mordente. Escludendo qualche scelta eccessivamente spettacolare, più da cinema statunitense che inglese, il piano sequenza dona al film una maggiore aderenza alla realtà e lo spettatore si immedesima ancor più fortemente nelle vicissitudini dei protagonisti: l’attenzione è sempre tenuta al massimo, come quella dei soldati in guerra. Ci si muove con loro, si vivono le loro fatiche, le trappole, i dolori e le corse estenuanti: la tecnica rende giustizia al film, ne rafforza il messaggio di precarietà, di senso del dovere e di disperazione; lo spettatore, insieme a Blake e Schofield, va avanti a tutti i costi, con il cuore in gola, fino alla fine. La regia sottolinea il senso di logoramento della Prima guerra mondiale: lo spettro della morte che accompagnò i soldati stipati nelle trincee per quattro lunghi anni, tutti i giorni, ventiquattro ore su ventiquattro, Mendes lo fa rivivere per due intense ore. Un film “circolare”: si apre con lo sfondo di un campo primaverile e finisce con lo stesso tipo di campo. Il film ritorna al punto di partenza, perché la Grande Guerra fu anche questo: un eterno ricominciare, tanti chilometri si avanzavano quanti se ne perdevano, tanti nemici si uccidevano quanti commilitoni morivano. Tanto movimento per poi ripartire dal principio. Ma il finale dona una speranza e questa speranza risiede anche nella data del film, non casuale: il 6 aprile 1917, il giorno in cui Woodrow Wilson, il presidente degli USA, dichiarò guerra alla Germania ed entrò al fianco dell’Intesa. Il giorno di svolta della storia del conflitto, il giorno che Blake e Schofield, come tutti gli altri soldati, avrebbero voluto vedere prima.

Silvio Gobbi

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recensione cinematografica 2020-01-25
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