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La recensione del film di Gianni Amelio, “Hammamet”

Bettino Craxi (1934-2000) trascorse gli ultimi anni della sua vita in Tunisia, ad Hammamet. Un politico potente e controverso: colui che portò il Partito Socialista Italiano (tassello fondamentale del “Pentapartito”) al suo massimo, ma fuggì ad Hammamet per via dei processi a suo carico, nati con “Mani pulite”. Nella sua casa in Tunisia, gravitarono intorno a lui la moglie, il figlio, la figlia devota ed una serie di personaggi del mondo politico e non. Non tornò mai più in Italia, rimanendo sempre più solo. Dal potere al nulla: dall’essere capace di imporsi agli Stati Uniti a Sigonella, dall’uomo che, al processo Cusani-Enimont, ammise tranquillamente che non soltanto lui, ma tutti i politici erano a conoscenza della natura «irregolare» di certi finanziamenti, pronunciando la storica frase «[…] non lo vedeva solo chi non lo voleva vedere», all’essere abbandonato alla malattia ed ai pensieri.

Ed è proprio questo il Craxi (interpretato da Pierfrancesco Favino) rappresentato in Hammamet, scritto e diretto da Gianni Amelio: un uomo solo in un paese straniero, che conta i giorni verso la propria fine. L’autore dirige un film intimo: la camera segue il protagonista, assecondando la lentezza, gli acciacchi e la fine dell’uomo; la camminata strascinata, a tratti zoppicante, dell’ex leader socialista, sottolineata dalle riprese di Amelio, evidenzia il percorso verso la morte del protagonista. Ma il vero punto forte del film è l’interpretazione di Favino. Al di là della mostruosa somiglianza fisica (dove il merito è tutto degli eccellenti truccatori), l’attore romano è riuscito a far rivivere Bettino Craxi. Lui non interpreta Craxi, ma è Craxi: identico non solo nell’aspetto, ma soprattutto nei movimenti, negli scatti e nella voce in maniera impressionante. Un lavoro pienamente eccellente, capace di cogliere tutte le sfumature del politico milanese: potremmo chiamarlo Piefrancesco Bettino. Per quanto riguarda la storia in sé, Gianni Amelio decide di non condannare «Ghino di Tacco», facendo trasparire una punta di assoluzione nei confronti del protagonista. Il regista è interessato alla sofferenza di questo uomo, realizzando un’opera puramente drammatica e di finzione, non una biografia: vuole raffigurare un essere che vive su di sé il peso delle proprie colpe. I riferimenti alla politica, a “Tangentopoli”, sono appena accennati, dei frammenti. Amelio decide di rimanere velato: l’immagine che ne esce è quella di un politico che sì ha commesso i suoi “piccoli peccati”, ma senza essere stato l’unico (e ciò viene ripetuto varie volte lungo il film). Il regista abbonda con le figure reinventate e, in certi casi, mai esistite o non identificabili. Si concede un’immensa licenza poetica nel rappresentare la visione onirica di Craxi, dove realtà e paure si mescolano, con un risultato non perfettamente riuscito, al limite del fastidioso. Si può essere molto più evocativi con qualche sequenza silenziosa, capace di far affiorare, tramite il mutismo, una miriade di sensazioni e riflessioni, senza dover disturbare i sogni. Ma Gianni Amelio ha fatto la sua scelta e ha rappresentato la sua visione di uno dei politici più importanti e controversi della storia italiana: un film dal giudizio difficilmente definibile, con elementi buoni ed altri meno, in bilico tra il riuscito ed il non riuscito. Un po’ come il suo protagonista, inafferrabile.

Silvio Gobbi

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