Jonah (Evan Rosado) ha due fratelli, Joel (Josiah Gabriel) e Manny (Isaiah Kristian). Tutti e tre sono giovanissimi, poco più che bambini: vivono in una città sperduta, in mezzo ai boschi, nello stato di New York, con il padre portoricano (Raúl Castillo) e la madre (Sheila Vand). I due genitori sono un disastro: il papà lavora come guardiano notturno in una fabbrica ed ha un caratteraccio violento; la madre si guadagna da vivere in fabbrica, è depressa e spesso le prende dal manesco marito. I tre ragazzini, quindi, stanno sempre insieme: giocano ed esplorano la natura che li circonda. La loro energia riesce a rendere più sopportabile la violenza che vivono quotidianamente (le liti tra i genitori ed i conseguenti tira e molla). I giovani imparano presto a badare a loro stessi, ad arrangiarsi, con piccoli furti ed espedienti. Ma Jonah è differente rispetto ai suoi fratelli: Joel e Manny sono più vivaci, iperattivi, e abili nuotatori. Lui è il minore, è silenzioso, pensieroso, e non sa nuotare. Nel tentativo (brutale) del padre di insegnare al piccolo come si nuota, rischia di affogarlo: l’incubo di annegare diverrà il costante tormento, il leitmotiv di Jonah lungo tutta la vicenda. Per non farci mancare nulla, Jonah entrerà in crisi scoprendo il proprio orientamento sessuale, antitetico rispetto a quello del padre e dei fratelli maggiori. Egli sfogherà la propria natura ed intimità disegnando, nel suo quadernino personale, tutte le sue sensazioni e tutto ciò che gli capita. Disegni che prendono vita, che si animano, con luci e fotografia perfette, narrano la storia di crescita del giovane Jonah, protagonista di Quando eravamo fratelli, diretto da Jeremiah Zagar (titolo originale We the animals, tratto dal romanzo omonimo di Justin Torres). Un racconto formativo, a tratti didascalico, dalla trama fin troppo nota: i personaggi ricalcano dei clichés già presenti in molte altre vicende. Ma il film è riuscito lo stesso ad aggiudicarsi il premio “NEXT Innovator Award” al Sundance Film Festival 2018, e infatti qualcosa di buono c’è: la narrazione. Un racconto asciutto ed al tempo stesso denso di colori ed immagini: scarno di dialoghi (ridotti al minimo necessario), per dar spazio alla voce del bambino, all’immaginazione di Jonah, vera protagonista della vicenda (il suo modo di vedere il mondo e di vivere la presa di coscienza di sé). Il trauma dell’annegamento è suo compagno e simbolo della sua maturazione: Jonah, durante la crescita, si scopre ed affoga in sé, in ciò che veramente è, una scoperta che segna il passaggio dall’innocenza alla coscienza adulta (con tutte le ferite del caso). Donandoci lontane eco ed ombre di lungometraggi come Moonlight (Barry Jenkins, 2016), L’Atalante (Jean Vigo, 1934) e The Tree of Life (Terrence Malick, 2011) ma senza la profondità di queste pellicole, Zagar rappresenta una storia dove il ricordo, la fantasia e la realtà si fondono tra di loro in maniera energica ed efficace, facendo sì che la debolezza e l’ovvietà della trama vengano sopperite dalla tecnica narrativa adottata dall’autore: le emozioni di Jonah, autentiche protagoniste, sono rappresentate con nettezza ed autorialità riguardevoli, tramite luci, inquadrature e disegni animati che rimangono nella mente. Jonah cresce, sprofonda nell’acqua delle vicissitudini: letteralmente ne viene ingoiato, come accadde al suo omonimo biblico con il mostruoso pesce. Affoga nel trauma e, tramite quel sordo dolore, scopre sé stesso: quell’acqua, che nell’Atalante di Vigo era il luogo onirico, dove il protagonista rivedeva la sua amata dispersa, qui diventa un ambiente di scoperta, di lotta, di paura, di sogno ed incubo. Zagar rappresenta l’acqua come il liquido amniotico dove vita e morte convivono, all’interno del quale i sogni sono incubi e viceversa: un film tra realtà e fantasia, tra ricordi autentici ed emozioni amplificate, dove l’immaginazione si fonde con i fatti, creando una realtà autentica e non al contempo, l’unica che conta per Jonah, giovane alla scoperta del proprio futuro.
Silvio Gobbi