Vincent van Gogh è un pittore dalla pennellata spessa, veloce ed inconfondibile. La sua pittura è audace, troppo avanti: corre veloce come lui quando passeggia nelle campagne che tanto adora. Di quei luoghi, egli imprime l’anima nelle sue tele, dando forma e figura allo spirito del mondo percepito dalle sue retine. Pennellate corpose, come detto, cariche, pesanti e quasi tridimensionali: il colore fuoriesce dalla tela, come se volesse raggiungere chi lo guarda, come se volesse tastare le pupille del fruitore. Ma la vita di Vincent non è facile: nessuno apprezza lui e la sua arte, e ciò lo turba. Vive in un mondo, tra follia e visione, che egli solo riesce a sentire: una gabbia di immagini e sensazioni dalla quale quasi tutti sono esclusi. Chiunque lo evita o lo maltratta. Solo il fratello, Théo, e Paul Gauguin gli vogliono bene. Il primo, prova sincero affetto e crede nella sua arte; il secondo, è il famoso pittore con cui ha un’amicizia intensa e turbata, un continuo confronto e scontro sulla visione della vita e dell’arte. Questa è storia, da molti è stata narrata e rappresentata. Ma solo Julian Schnabel è riuscito a creare una vera narrazione espressiva e visiva, una degna pittura su pellicola della vita di Vincent. In Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità, il pittore-regista statunitense rappresenta gli ultimi tre anni di vita del pittore olandese. Schnabel percorre le tappe principali degli ultimi tempi: l’incontro con Gauguin, il periodo ad Arles, i momenti di crisi ed i soggiorni al manicomio di Saint-Rémy-de-Provence, fino alla misteriosa morte, nel 1890, ad Auvers-sur-Oise. Le lettere tra Théo e Vincent fanno da ossatura alla vicenda, senza cedere alla didascalia: l’autore raffigura il percorso di van Gogh seguendo con frenesia i passi dell’instancabile pittore viandante. Le continue soggettive, la camera a mano, le distorsioni dei primi piani, la concitazione di alcune sequenze, il filtro giallastro di certe atmosfere: tutte queste tecniche sono il pennello e la tavolozza del regista. Schnabel, attraverso tali pratiche, tratteggia con precisione e vitalità la figura di uno dei più sfortunati ed importanti pittori della storia. L’ingegnosità del regista si fa contenuto, il mezzo diventa messaggio: ciò che vediamo plasma ciò che sentiamo, per affondare e radicarsi nelle nostre menti. In Van Gogh, tecnica e contenuto concorrono a creare la pura immedesimazione dello spettatore nel protagonista, vivendo i suoi entusiasmi e le sue turbe, senza pecche agiografiche. La vita dell’addolorato olandese, uomo poliedrico ed inquieto, pittore per vocazione, necessità e nevrosi, è interpretata da un grande Willem Dafoe (premiato a Venezia con la Coppa Volpi), il quale rivive la pena del protagonista con un’intensità autentica, senza cedere al patetismo: ripercorre (affiancato da interpreti altrettanto ottimi) il cammino dell’olandese verso quella sconosciuta eternità che non appartiene a questo mondo. Costante è la ricerca di Vincent del luogo, della luce capace di dar vita alle proprie tele: le interminabili passeggiate fanno da leitmotiv; i suoi strumenti sono tanto i pennelli ed i colori quanto le gambe per passeggiare. Il tema della visione del mondo è il fulcro della storia: frequentemente, Vincent ribadisce di voler mostrare agli altri le cose non come sono, ma come lui le vede. L’evoluzione lo porta ad essere cosciente di non appartenere al contingente, all’attuale, ma ai posteri che verranno, all’eternità successiva: il van Gogh di Schnabel non solo raggiunge la soglia dell’eternità, ma la agguanta e la varca. La pellicola parla da sé, cattura senza il bisogno di troppe analisi: come scrisse Vincent nell’ultima lettera a Théo «[…] non possiamo far parlare che i nostri quadri», lo stesso per Schnabel non possiamo far parlare che la sua opera.
Silvio Gobbi