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Bohemian Rhapsody: biopic non all’altezza delle aspettative

1970, il giovane Farrokh Bulsara (noto poi come Freddie Mercury) tira a campare senza una direzione precisa: lavoricchia in un aeroporto, dove si occupa di caricare e scaricare i bagagli. Non ha prospettive per il futuro, nessun progetto definito: nel tempo libero, scribacchia canzoni e frequenta i locali per ascoltare i concerti delle band emergenti. Un giorno, la svolta. Il ragazzo incontra due musicisti spiantati con i quali inizierà quella grande avventura che li porterà a diventare i Queen.
Bohemian Rhapsody (regia Bryan Singer, soggetto e sceneggiatura di Peter Morgan ed Anthony McCarten) narra e sviscera l’ascesa, i momenti felici e cupi della band più famosa d’Inghilterra, dal 1970 fino alla mastodontica performance a Wembley nel 1985, in occasione del “Live Aid”, concerto benefico i cui proventi furono destinati ai poveri d’Etiopia (vi parteciparono le più importanti band del mondo: dai Led Zeppelin agli U2). La pubblicità ha gonfiato alla grande questo film: l’attesa costruita su questo biopic (incentrato più su Freddie Mercury che sui Queen in generale) è stata spinta ai massimi; altissime le aspettative con cui il pubblico è stato caricato. Ma Bryan Singer ha diretto un film puramente didascalico, senza aggiungere nulla a ciò che già è stato scritto della loro storia. Il primo tempo corre letteralmente: dal momento in cui Freddie (interpretato da Rami Malek) conosce Brian May (Gwilym Lee) e Roger Taylor (Ben Hardy), il tempo vola come se fosse un fulmine. Si sofferma lo stretto necessario sulla gestazione ed i primi successi della band (probabilmente gli autori ascoltavano a palla “Don’t Stop Me Now” mentre scrivevano e giravano questa prima parte). Fortunatamente nel secondo tempo arriva un po’ di pausa, la foga scema: gli aspetti più problematici e tormentati di Mercury affiorano e possiamo così avere un protagonista dalla figura più strutturata e complessa (le liti con il gruppo, il peso della notorietà, la scoperta dell’omosessualità e le sbagliate amicizie che lo fanno allontanare dai suoi autentici affetti). Di romanzo ce n’è molto, di rigore storico molto meno: gli autori si concedono varie licenze temporali per costruire una storia più propensa all’intrattenimento che all’esattezza dei fatti (ad esempio, la celebre “We Will Rock You” venne scritta nel 1977, non nel 1980 come il film mostra). La vera forza della pellicola sta nell’impegno degli interpreti: il protagonista, Rami Malek, più che somigliare all’originale Mercury, riesce nell’immenso sforzo di impersonare al meglio gli atteggiamenti e le mosse del grande performer. Più somaticamente somiglianti sono gli altri tre membri del gruppo, specialmente Gwilym Lee nel ruolo di Brian May: è la fotocopia. Un film buono nell’idea, ma non pienamente riuscito, slegato in certi punti e funzionante in altri. L’andamento a fasi alterne, zoppicante, viene tenuto insieme dalle grandiose e universali canzoni che tutti conoscono e cantano: intensa la sequenza finale, il “Live Aid”, una delle loro migliori performance. La riprova che gli autentici Queen sono quelli che conosciamo tramite le loro canzoni: la vera essenza del gruppo è assimilabile dai loro pezzi, dai loro spettacoli. Ascoltare la loro musica è vivere la loro entusiasmante vita, e solo lì possiamo essere coinvolti, come nessuna biografia riuscirà mai a farlo.

Silvio Gobbi

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