Marie Colvin (1956-2012) è stata una nota giornalista di guerra. Inconfondibile il suo occhio bendato, perso durante un reportage nello Sri Lanka, per testimoniare la guerra delle Tigri Tamil. Una giornalista pirata, nell’aspetto e nella scrittura: penna cruda, schietta, volta a narrare le storie della gente comune, le vere vittime dei conflitti mondiali. Probabilmente influenzata dai suoi studi di antropologia alla Yale University, ha sempre raccontato la guerra dal lato delle persone qualsiasi, incapaci di decidere dei conflitti, dai quali possono solo subire senza poter far nulla: le inerti pedine delle scelte politiche. Fin dal 1985-86, dall’inizio della sua collaborazione per la sezione esteri del britannico “The Sunday Times”, Marie ha viaggiato per il mondo e vissuto in prima persona le zone del conflitto: Afghanistan, Sri Lanka, Libia, Iraq e Siria. Una vita difficile, travagliata, sempre al limite tra la vita e la morte, per testimoniare direttamente gli orrori della guerra senza mezzi termini. Una simile vita non è una passeggiata, si muore continuamente, dentro di sé, giorno per giorno, a forza di essere a contatto con la guerra: essa ti assorbe, non riesci più a farne a meno. Alla fine, la tua stessa persona è lacerata dagli orrori, la tua anima diventa un campo minato, una interminabile battaglia: questa guerra intima, questa “guerra privata” è quella che ha agguantato la vita di Marie Colvin. Il biopic A Private War (di Matthew Heineman) narra gli ultimi undici anni di vita di Marie, il periodo in cui ha raggiunto il massimo successo lavorativo e la massima nevrosi. Rosamund Pike interpreta il ruolo della giornalista con intensità, tracciando sul suo viso un ritratto duro e dolce al contempo. La guerra reale ed intima vissuta da Marie si scolpisce sul corpo e sulla psiche: per la giornalista, non ci sono nette divisioni tra il mondo in pace e quello in guerra. Gli incubi la perseguitano costantemente, sogna continuamente i bombardamenti, i morti del Medio Oriente, uccisi per mano di chi decide della vita e della morte di tutti noi. Un film dalla regia frenetica, come un collegamento in diretta: una pellicola biografica dal sapore sia giornalistico che introspettivo; rappresentare la guerra e le sue ripercussioni su Marie è l’obiettivo del regista. Il ritratto della Colvin è composto da tenacia e pazzia, un continuo spingersi oltre i limiti (geografici ed intimi), fino ad arrivare a non distinguere più tra guerra “reale” e guerra “personale”. Il lavoro la costrinse a vivere lontana da casa, ciò la portò a lottare contro lo spettro della donna che avrebbe voluto essere: moglie, con figli e famiglia. Ma era impossibile, non sapeva vivere senza la guerra: quella era la sua famiglia, le vittime dei conflitti erano i suoi figli. Morì nel 2012, a Homs, in Siria, dopo aver testimoniato alla CNN i feroci bombardamenti di Assad, non indirizzati solo ad obiettivi militari ribelli (come lui proclamava), ma sulla popolazione a tutto spiano. Non uscì viva da quella sua ultima guerra (la peggiore da lei mai vista, come dichiarò), arrivando a rispettare le parole che le vengono attribuite: «Ci sono giornalisti anziani o giornalisti coraggiosi. Ma non ci sono giornalisti anziani e coraggiosi».
Silvio Gobbi