“Smetto quando voglio – ad honorem” (2017) è il capitolo conclusivo della saga, ideata nel 2014, del regista Sydney Sibilia. I protagonisti sono sempre i nostri geniali, quanto sgangherati, ricercatori universitari, ritrovatisi a produrre e vendere “smart drugs” per poter lavorare, dopo esser stati licenziati dall’Università a causa dei tagli indiscriminati. Ora, l’obiettivo della “banda”, capitanata da Pietro Zinni (Edoardo Leo), è quello di evadere dal carcere di Rebibbia per poter sventare l’attacco chimico terroristico di un pazzo che vuole sterminare, durante un’importante cerimonia presso La Sapienza, i massimi vertici dell’Università italiana.
Il film non perde mai il ritmo ed è caratterizzato da una regia spedita e da un montaggio veloce: l’autore riesce a riscattarsi dalla debolezza del secondo capitolo “Smetto quando voglio – masterclass” (molto più fiacco rispetto al primo, ma fondamentale come raccordo narrativo tra il primo e l’ultimo episodio della serie), concludendo in grande stile questa saga cult della commedia italiana. In questo terzo film, i personaggi ritornano a spiccare per le loro caratteristiche personalità: un divertente mix tra imbranataggine e genialità, con risate assicurate. Ma dietro la risata si cela, in maniera non velata, la forte critica che il regista muove al sistema universitario italiano: un sistema fallace e claudicante, fatto di favoritismi e non di merito, solo all’apparenza funzionante (le inquadrature della bella e pulita facciata del palazzo del rettorato della Sapienza sono una metafora dell’università italiana in sé: perfetta all’esterno, ma piena, all’interno, di tanti piccoli e grandi difetti che ne impediscono un ottimo funzionamento). I Rettori, i Presidi di facoltà, i vari Ministri dell’Istruzione che si succedono sanno solo “rimpastare” l’Università, senza mai arrivare al fondo dei suoi problemi: sono solo capaci di riempirsi la bocca di retorici discorsi su “meritocrazia” ed “eccellenza”, ma poi, nella stragrande maggioranza dei casi, le parole cadono nel vuoto, in cicliche e disattese promesse di “sanare l’università italiana”.
Sibilia affronta questa critica al sistema universitario con le risate, riuscendo così ad ottenere una nuova e originale forma di commedia italiana: riprende dalla classica “commedia all’italiana” la voglia di ridere dei difetti e delle contraddizioni della società italiana e dei suoi individui, ma rielabora questo stile con un taglio della regia non più puramente italiano, più dinamico e aperto alle influenze estere (e ciò si vede in ogni aspetto del prodotto: dalle inquadrature alla colonna sonora). Come in ogni buona commedia, il regista non arriva a formulare una condanna definitiva per la situazione dei nostri personaggi: lascia una speranza per l’avvenire dei protagonisti e delle nuove generazioni. È un film da vedere per divertirsi e per riflettere, per capire come funzionano certe dinamiche accademiche e le situazioni assurde che ne potrebbero derivare: chi conosce un po’ l’ambiente universitario sa benissimo come funzionano i giochi per l’assegnazione dei fondi e sa anche quante persone capaci ed intelligenti siano costrette ad andarsene e a reinventarsi per poter trovare un lavoro migliore. Sydney Sibilia è riuscito a trattare questo tema divertendo il pubblico, senza essere né pesante né drammatico: la drammaticità è insita nelle risate che noi facciamo nel conoscere le storie personali dei protagonisti e le loro rocambolesche vicende. È un film da vedere per ridere e capire, che conferma i noti difetti dell’Università italiana, lasciandoci, però, con un minimo di speranza per il futuro che verrà.
Silvio Gobbi