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Giuseppe Pelizza di Volpedo, Il quarto stato, Museo del Novecento, Milano
Giuseppe Pelizza di Volpedo, Il quarto stato, Museo del Novecento, Milano

Storia locale: la Società operaia femminile di mutuo soccorso

di Alberto Pellegrino

Le prime Società operaie di mutuo soccorso nacquero intorno alla metà dell’Ottocento per riunire operai e artigiani nel segno della solidarietà popolare e con lo scopo di incidere in modo concreto sul mondo del lavoro. Dopo l’Unità d’Italia si formarono anche società operaie di mutuo soccorso di tipo paternalistico e legate a vecchie concezioni filantropiche, fondate da esponenti dei ceti nobiliari, della borghesia terriera e finanziaria che puntavano a un controllo delle classi lavoratrici. Con la nascita del Partito Socialista Italiano (1892) sorsero nuove organizzazioni dei lavoratori di tipo sindacale che avevano un’impostazione più politica. Nel 1919 lo Stato istituì la Cassa nazionale delle assicurazioni sociali, che nel 1933 fu trasformata dal governo Mussolini nell’Istituto nazionale fascista di previdenza sociale. Da quel momento le Società di mutuo soccorso persero progressivamente la loro funzione, ma bisogna ricordare che esse sono state le prime organizzazioni democratiche di massa fondate sui principi dell’autogestione e dell’autofinanziamento, impegnate a dare una soluzione ai bisogni concreti della classe operaia, diventando una “palestra” di formazione politica per quanti erano privi d’istruzione, del diritto di voto e di adeguate tutele sociali.

Le Società di mutuo soccorso femminili

In questo quadro va collocato il problema del lavoro femminile, tenendo conto che nell’Ottocento le donne erano considerate esseri inferiori da porre sotto tutela dell’uomo, l’unico ad avere il diritto di stabilire un rapporto tra la famiglia e la società. Il salario pattuito per la manodopera femminile era la metà di quello maschile, ma l’orario di lavoro era in media di dieci ore giornaliere come per i maschi. Nelle fabbriche le operaie vivevano in condizioni di degradazione ed erano vittime della sottoalimentazione, della sporcizia, delle malattie professionali, delle molestie sessuali di proprietari e capioperaio, molestie che dovevano subire in silenzio per non essere licenziate. La funzione materna rappresentava un ostacolo all’occupazione, per cui si cercava di non assumere donne coniugate e in ogni caso si licenziavano quelle incinte, perché avevano minori capacità lavorative. Nonostante queste condizioni sfavorevoli, l’occupazione femminile si diffuse nella società industrializzata, poiché il lavoro delle donne aveva un costo minore ed esse avevano bisogno di dare un sostegno economico alle famiglie. Per rimediare a un’assoluta mancanza di tutele sorsero le prime Società di mutuo soccorso femminili (la prima nacque a Bergamo 1863), che poi si diffusero in diverse regioni, tanto che nel 1885 si contavano 26 società operaie femminili. La loro primaria funzione era di dare un aiuto alle lavoratrici malate, alle puerpere, alle disoccupate e alle invalide, insegnare gratuitamente alle donne a leggere e a scrivere nelle scuole festive.

La Società operaia femminile di mutuo soccorso di San Severino Marche

Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento San Severino Marche, con una popolazione di 14.775 unità, era un centro economicamente abbastanza sviluppato, dotato di una moderna centrale elettrica (1894) e di una stazione ferroviaria (1896). In città vi erano numerose aziende che occupavano manodopera maschile e femminile, tra cui una filanda, una segheria idraulica e un mobilificio, una vetreria, due concerie, una cartiera, un laboratorio per il trattamento delle ceneri aurifere. Dal 1883 al 1889 fu attivo il mulino a cilindri più importante dell’Italia centrale con circa 100 addetti e con una produzione giornaliera di 600 quintali di farina. Esso era dotato di macchinari elettrificati alimentati da una centrale elettrica e aveva un tratto ferroviario di 1.600 metri che collegava la stazione centrale alla fabbrica. Vi erano inoltre importanti istituzioni sociali come l’Orfanatrofio Femminile (1841), il Brefotrofio per le spurie (1866) e il Ricovero per gli orfani (1867) e l’Ospedale Civile Perla presenza di una numerosa classe operaia furono fondate nel 1862 la Società operaia di Mutuo soccorso (una delle prime nelle Marche), la Banca popolare di credito e risparmi con capitali versati dai lavoratori (1872), la Cooperativa di Previdenza e Lavoro (1891) e la Scuola serale per operai (1896).
Nel 1890 nacque la Società Operaia Femminile di Mutuo Soccorso con 200 lavoratrici associate, precedendo altre società marchigiane che sorsero agli inizi del Novecento soprattutto nell’Anconetano. Gli organi di gestione della Società erano la Presidente, la Direttrice, il Consiglio generale, il Consiglio direttivo, un Comitato di revisione; dovevano essere formati da donne che avessero compiuto il 21° anno e che sapessero leggere e scrivere. Era inoltre previsto un Comitato di Soccorso con due “Professori sanitari eletti dalla Società”. Secondo lo Statuto: “La Società Femminile di mutuo soccorso ha per iscopo il benessere materiale, e il perfezionamento morale e intellettuale delle donne associate…si regge e governa sotto la direzione delle Socie istesse, e ha carattere esclusivamente civile”. Le principali attività erano l’assistenza delle malattie e del puerperio, i sussidi per la vecchiaia o per l’inabilità al lavoro. Le risorse finanziare, destinate al raggiungimento delle finalità statutarie, erano costituite dai contributi associativi e dalle rendite straordinarie. Esisteva anche un Regolamento che fissava le condizioni per diventare socie: essere domiciliate a San Severino; avere un’età compresa tra i 15 e i 40 anni, possedere una sana costituzione fisica, avere il consenso dei genitori per le minori o il consenso del marito per le coniugate, pagare una tassa di ammissione. Le socie, che avevano raggiunto il 70° anno, non dovevano più pagare alcun contributo, ma potevano godere dei diritti delle altre socie. Si precisavano i compiti dei “due Professori Sanitari”, che rilasciavano certificati di malattia per i sussidi, anche se la Società riconosceva gli attestati di altri medici e chirurghi condotti. I due medici potevano essere consultati anche “per affari” riguardanti la loro professione.

Nel Regolamento erano fissate le norme riguardanti le varie forme di assistenza:

1. L’assistenza in caso di malattia era fornita, dopo un anno di ammissione, a quelle socie che erano in regola con i versamenti delle quote sociali. L’assistenza era prevista per tutte le malattie che “per dichiarazione del Professore Sanitario” rendevano la socia inabile al lavoro. Il sussidio era previsto anche per le malattie croniche o “acquisite in luoghi insalubri”. Per le malattie di breve durata, non superiore ai sette giorni, non era previsto un sussidio di convalescenza che era invece assegnato per i primi dieci giorni, per i secondi dieci giorni e per i giorni successivi, senza però superare i cento giorni nel corso di un anno. Nel caso di malattie acute, che obbligavano la socia a rimanere a letto su attestazione del medico curante, era previsto un sussidio straordinario per l’assistenza e l’acquisto dei medicinali. Non si accordavano sussidi, né altre forme di assistenza “per le malattie cagionate da sregolatezze di vita o da mal costume”. Ogni anno era estratto a sorte “un premio di Lire Dieci a beneficio di una tra le socie sposatasi entro l’anno” che avesse tenuto “una condotta irreprensibile”.

2. Per il puerperio era assegnato un sussidio per i primi 10 giorni e per i giorni successivi su un certificato rilasciato da un’ostetrica. In caso di malattia, la puerpera riceveva il sussidio ordinario, mentre i malesseri derivanti dalla gravidanza (nausea, debolezza, mal di schiena, ecc.) erano considerati conseguenza naturale e non davano diritto a un sussidio, mentre l’aborto era considerato al pari di una malattia. Il sussidio decadeva se la socia teneva una “cattiva condotta” come “l’accattonaggio illecito e l’ubriachezza”.

3. La pensione di vecchiaia era assegnata alla socia “resa impotente al lavoro” e consisteva in un sussidio mensile deliberato dal Consiglio generale, che ammetteva la domanda “corredata da un certificato sanitario comprovante la impotenza al lavoro”. Lo stesso trattamento era riservato a “ogni socia di qualunque età, che per disgraziate eventualità si rendesse assolutamente inabile a un proficuo lavoro”.