Una folla straripante e commossa ha partecipato, stamattina, ai funerali di Simone Forconi. E una città intera si è fermata per onorarne la memoria e rispettare il lutto cittadino proclamato dal Comune. Lacrime e dolore hanno scavato il volto di tutti, ancora sconcertati per questa immane tragedia di Natale sulla quale molti continuano a interrogarsi. Le risposte forse arriveranno con il tempo. Ma oggi, secondo noi, vale la pena riflettere rileggendo le parole usate nell’omelia da don Antonio Napolioni che ha concelebrato la funzione religiosa assieme ad altri sacerdoti e al vicario don Aldo Romagnoli.
Ve la proponiamo, integralmente, di seguito.
“Che razza di Natale abbiamo vissuto! Non lo dimenticheremo mai… Non una festa guastata, ma il dramma della nostra fragilità, che ci ha messo in ginocchio due volte. In ginocchio per il dolore, che ha piegato soprattutto Enrico e tutti i familiari di Simone; in ginocchio per la preghiera, muta e accorata: Signore, dove sei? Abbi pietà di noi!
Dio conosce la nostra debolezza mortale, e ci ha donato suo Figlio Gesù per condividerla e trasformarla. Nella notte di Natale, un bambino nasce per morire sulla croce, perché bambini e adulti altrettanto crocifissi possano nascere alla vita senza fine. Questo meraviglioso scambio rende possibile il “dies natalis” dei martiri, il “giorno natalizio” anche del nostro Simone. Ieri, 28 dicembre, se non fosse stata domenica avremmo celebrato la festa dei Santi Innocenti, i bimbi che Erode fece uccidere cercando di eliminare Gesù. Papa Francesco, il giorno di Natale, ha denunciato la tragica attualità di quella scena: quanti bambini anche oggi, nel mondo, in tanti modi, e non solo lontano da qui… pagano il prezzo delle nostre immaturità e dei nostri peccati. Con i piccoli per età, pensiamo anche ai piccoli per condizione, gli emarginati e i poveri, i malati, soprattutto chi non ha il controllo di se stesso, e non può essere pienamente responsabile di sé e degli altri. Quella notte a San Severino, il dramma è avvenuto tra due “bambini” fragili: madre e figlio.
Davanti a tanto dolore innocente, in questo momento, raccogliamo l’invito di Gesù a “non giudicare”; semmai ciascuno guardi nel proprio occhio e nel suo cuore. Per sradicare germogli di piante velenose, per non alimentare nessuna zizzania. Per scegliere la benevolenza verso gli altri, verso la propria storia. E perché in futuro ci capiti sempre meno di sapere e non intervenire, di guardare e continuare a fare la nostra strada, di rassegnarci e scrollarci le spalle. Lo dico innanzitutto per me.
Il nostro Arcivescovo, che ci ha seguito quotidianamente ed è in preghiera con noi, ci ha suggerito la bella pagina del Vangelo di Giovanni, che abbiamo ascoltato. Anche Gesù ha ricevuto una terribile notizia: il suo amico Lazzaro, nella cui casa tante volte era stato accolto con affetto (anche dalle sorelle Marta e Maria), è gravemente malato. Gesù, però, non corre subito da lui, aspetta, ritarda. Infatti, al suo arrivo, Lazzaro è ormai morto, e le sorelle gli dicono: “Signore, se tu fossi stato qui…!”. Ma forse Gesù non è un 118!
Signore Gesù, se tu fossi stato qui… Simone sarebbe ancora con noi? Viene da dubitare: ma sei venuto davvero in questa notte di Natale? Vorremmo arrabbiarci perché non ci hai fatto un miracolo. Ma tu hai scelto di non sostituirti alla nostra libertà, il dono più grande che Dio ha fatto all’uomo. E non hai ripulito la vita dalle circostanze assurde e banali che possono minacciarla. Tutti noi ci rimproveriamo di arrivare sempre troppo tardi, ma anche tu sembra che non sia stato migliore di noi, perché?
Innanzitutto perché “Cristo non ha mani” – recita un’antica preghiera – “ha soltanto le nostre mani, i nostri piedi, i nostri occhi…”. Noi ci rimproveriamo di non aver incarnato in tempo la tua sollecitudine per questa e altre situazioni, Tu però non ci lasciare. Nel buio della morte, continua a far risplendere la luce della speranza.
Mai come in questo Natale, infatti, abbiamo guardato a Te, abbiamo bisogno di Te, ci rimettiamo completamente a Te. Tu sei stato qui, in Simone e in tutti: mostraci dopo l’ora delle tenebre, un’aurora di vita. Donala soprattutto a chi è più provato.
Alla domanda di Maria Gesù risponde con il suo pianto. Non è solo uno sfogo di nervi, è molto di più. Il santo contagio delle lacrime, che ci restituiscono tutti ad una umanità più vera, al di là delle maschere di presunta autosufficienza e della scorza di troppa indifferenza. Gesù scoppiò in pianto… proprio come i compagni di scuola e catechismo, come tante mamme e tanti papà. Perché gli occhi e il cuore di Gesù rivelano i sentimenti di Dio, e il senso della vita: amore, tenerezza, compassione e perdono.
Dissero: “Guarda come lo amava!”. Anche la partecipazione di questi giorni, il silenzio nelle chiese, le facce smarrite e i tanti abbracci, la ferita della città intera, dicono non solo il turbamento per un fatto di cronaca nera che non è più “da telegiornale”, quanto piuttosto il tessuto di rapporti quotidiani che ancora ci è dato di sperimentare in una realtà come la nostra. Ci conosciamo, ci incontriamo, i nostri figli crescono insieme, se necessario ci critichiamo e litighiamo…e tardi magari ci accorgiamo: “guarda come gli volevamo bene, guarda quanto ci manca, guarda quanto possiamo essere uniti!”. Proviamo a dircelo e a darcelo un po’ di più, questo bene! Dire bene e fare bene… così avremo meno fiori dopo e più dialoghi prima.
Io sono l’ultimo arrivato in questa comunità, che mi educa ogni giorno di più alla condivisione schietta di gioie e dolori. Simone è ora la prova più dura, ma credo che sarà anche la sorgente più abbondante di grazia.
Gesù, dopo quel pianto, volle arrivare davanti al sepolcro, una grotta chiusa da una pietra. Una pietra come quella che tenterà, dopo pochi giorni, di imprigionare nella morte Lui, il Signore della vita. Un buco nella terra come quello che, tra poco, accoglierà il corpo di Simone come seme di grano buono.
Il testo che abbiamo ascoltato oggi si interrompe su queste parole che Gesù rivolge a Marta, ai parenti in lutto: “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?”.
Tutti i familiari di Simone ci hanno dato in queste ore una autentica testimonianza di fede, che non basta a ridarci un figlio, ma ci permette di non morire con lui. Perché la fede ci dice che lui, Simone, è veramente nella gloria.
Non è infantile immaginare che lo stiano vestendo da angelo, ossia da messaggero di pace. Per noi. Per il nostro bisogno di pace.
Le grandi verità cristiane ci aiutano: Gesù Risorto e vivente accoglie l’anima immortale di Simone e – come abbiamo sentito nella prima lettura – ne asciuga le lacrime. Penso innanzitutto alle lacrime di Simone per la sua mamma: Debora continuerà a vivere non solo se noi la aiuteremo, nella sua dolorosissima via crucis, ma anche perché l’anima santa di suo figlio, che vive in Cristo, le toccherà il cuore con la delicatezza amorevole della stessa misericordia di Dio. Genitori e figli sono fatti per capirsi ed amarsi, nel tempo e nell’eternità. E lo sguardo materno della Vergine Maria fa di tutto perché questa armonia si ricostruisca, per vie che non conosciamo.
“Un cielo nuovo e una terra nuova”, infatti, sono davanti a noi. Dio l’ha promesso, e il cantiere è già in piena attività, sia in cielo dove Simone avrà il suo bel daffare (come santa Teresina che, morendo, diceva: “passerò il mio cielo a far del bene sulla terra”), sia tra noi ora. Per noi, popolo di Dio che vive a San Severino, diventano un concreto programma queste parole che papa Francesco ha scritto un anno fa nella sua lettera “Evangelii gaudium”: A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo.
Simone, il tuo sacrificio, che nell’eucaristia si fonde con quello del Signore Gesù, ci faccia complicare la vita così, nell’amore. La tua preghiera sostenga la nostra, doni pace a papà e mamma, e a tutti i tuoi cari. Che siamo noi. Perché ognuno sa quanto ci volevi bene”.