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GIORGIO ZAMPA © Leonardo Cendamo

Saggista traduttore, giornalista, docente: Giorgio Zampa e la “sua” San Severino

di Alberto Pellegrino

“Sono nato al numero 1 di vicolo delle Cicette, una congregazione religiosa. Il chiassuolo porta da Piazza Maggiore in Via Abbondanza e fa quindi parte della parrocchia di San Giuseppe; pochi metri più su e mi avrebbero iscritto nel libro d’anime di Sant’Agostino, la cattedrale di San Severino della Marca. Il fiume scorre a poche decine di metri dalle mura di via Abbondanza e non è quindi improprio asserire che ho visto la luce sul Potenza, in un punto dove il corso d’acqua […] compie una serie di volute prima di adagiarsi in un letto ampio, chiaro che gli consente di raggiungere senza fretta il porto di Recanati” (dalla prefazione de Il cuore della Marca).

Così si presenta Giorgio Zampa (1921-2008), saggista traduttore, giornalista, docente universitario, un notevole esperto di letteratura tedesca e italiana, rimasto sempre sentimentalmente legato alla sua città natale, dove ha ideato il “Premio Internazionale Fratelli Salimbeni per la storia dell’arte” e dove è stato il presidente dell’omonima Fondazione. Vissuto quasi sempre tra Firenze, Milano, Torino e Urbino, era preso da una certa emozione quando, arrivando col treno da Fabriano, vedeva apparire le torri del Castello e sentiva di riconoscersi il quel paesaggio familiare: “Sono figlio di questo suolo su cui si alternano luci diverse, di questa natura scontrosa, riservata, quasi pudica, grave anche nei momenti festosi, a volte tenera, mai soave. Più del mare prodigo, aperto alla speranza, è stato l’Appennino della miseria, della immutabilità, della rinuncia a dare carattere a questa terra, un carattere riconoscibile attraverso la successione delle civiltà”.

1. San Severino Marche. Panorama

Mentre ascoltava i rintocchi degli orologi della Piazza e della chiesa di San Agostino, sentiva nel profondo che questa era la sua patria, disposta “perpendicolarmente alla costa, ove il fiume prende senza esitazioni la via del mare. Essa si trova in una valle ricca una volta di ulivi, che a settentrione diventa magra, s’ingrigia; una valle umida, ventosa, dove […] i venti che la prendono d’infilata, dall’ostro che la vela di sabbia rossiccia e a tramontane che sembrano volerla smerigliare, imposero edifici robusti, resistenti al solleone, alla lunghe nevicate; ci sono disseminati conventi, pievi, abbazie romanici”.

A volte per mitigare la nostalgia e la malinconia della lontananza, Zampa amava abbandonarsi all’onda dei ricordi e nella sua memoria San Severino diventava una visione quasi mitologica: “Nella cittadina dello Stato Pontifico in cui crebbi, l’Unità aveva apportato cambiamenti vistosi, ma in buona parte di superfice; l’interno era rimasto immutato. la vita continuava a essere regolata dal calendario ecclesiastico, il clero governava famiglia, scuola, vita pubblica: al fascismo aveva lasciato il chiasso e le uniformi, mantenendo per sé la sostanza. Il tempo era scandito dalle funzioni celebrate nelle tante chiese, funzioni variate in ogni periodo dell’anno. Alla messa si era spinti da colpi di frusta più o meno blandi di famigli del governatore, come accadeva, dicevano, prima, ma chi la eludeva era segnato a dito e la qualifica di massone, pericolosa, faceva presto a seguire. Le festività erano allietate da giochi, processioni, desinari copiosi, tra città e contado, i nomi dei Patroni da ricordare erano pressoché infiniti. Quanto alle feste maggiori, Natale, Pasqua, la Madonna, San Pacifico, San Severino, duravano una settimana e davano impronta alla vita di un anno […] la cittadina non poteva dirsi povera, ma non aveva la ricchezza delle città sulla piana, il benessere di quelle avviate all’industria. Era un paesotto mezzo campagnolo, mezzo montanaro, i soldi erano in pochi a maneggiarli, la maggior parte si contentava di quanto veniva direttamente dai campi” (“I carnevali di un tempo”, Il Giornale, 7 febbraio 1989).

Il Carnevale cittadino

Un fatto eccezionale, ma pari per importanza alle festività religiose e civili, era il Carnevale, un periodo di libertà “vigilata” che si svolgeva sotto l’occhio della Chiesa che impartiva precise disposizioni per il ballo e le mascherate. Ma quando il primo rintocco di campana annunciava l’arrivo della Quaresima, si chiudeva il martedì carnevalesco e arrivava il Mercoledì delle Ceneri con il digiuno e l’astinenza. Il carnevale era vissuto in maniera diversa dalle classi sociali: per i “signori”, i possidenti gli impiegati si festeggiava in famiglia, ma aveva il suo momento clou nel veglione “celebrato” nel Teatro Feronia, luogo dell’orgoglio cittadino, dove Zampa bambino viveva con noia e disorientamento, una festa incomprensibile, frastornato dal chiasso, dalla confusione, dalla violenza: “Quelle feste cominciavano in un’atmosfera euforica, tra inchini e saluti allegri, battute leggere, finivano in modo drammatico, cupo e rancoroso. Fino a un certo punto della serata si lanciavano da palco a palco stelle filanti, caramelle, mandorle confettate: un modo di segnalarsi, un passatempo per quelli che non danzavano. Poi, a un segnale misterioso, venivano fuori sacchi di confetti grandi quasi come uova che in realtà erano impastati più che altro con gesso. Scagliati con forza, si trasformavano in proiettili che dove colpivano lasciavano il segno. Era una strage di lampadine, di bicchieri, c’era chi rimaneva contuso e ferito, l’atmosfera diventava avvelenata, piena di animosità e di spirito di vendetta”.

2. Il Teatro Feronia sede del grande veglione di Carnevale

Per gli “artisti” (gli artigiani) il Dopolavoro organizzava una serata danzante che non aveva molto successo, ma i più giovani si davano convegno nella Piazza durante il “Giovedì grasso”: apparivano travestiti soprattutto da donna, con seni e sederi enormi, con cappelli ridicoli e bocche impiastricciate di rossetto, oppure c’erano anche il finto ubriaco e l’immancabile maschera di Charlot. Al suono di un organetto, i gruppi si dimenavano e pronunciavano esclamazioni farsesche e grida sguaiate, percorrevano i portici e accennavano “goffe danze simulando abbracci passionali”. Da ragazzo, Zampa non capiva quella agitazione che non era allegria, ma piuttosto esprimeva disperazione, un sentimento di fondo che per mesi rimaneva nascosto per poi esplodere in un giorno come una liberazione. Le maschere vere però non erano queste, ma quelle che apparivano nell’ultimo giorno di Carnevale all’ora del tramonto e che arrivano in piazza a piccoli gruppi: “Mi veniva di prenderli per lenzuoli agitati, che sotto non nascondevano nulla, cose inanimate, incomprensibilmente mobili. Avanzavano senza rumore lungo il centro lastricato della piazza e cominciavano a spingersi, a ballonzolare, a girare su se stessi, in un silenzio che un suono emesso a fior di labbra rendeva ancora più fondo, quello che poteva essere esclamazione, richiamo incitamento finiva col somigliare a una minaccia. Non volevano nulla, non chiedevano nulla, la vista che offrivano era troppo povera per pretendere a spettacolo […] Era come un ballo senza musica, obbediente a un ritmo per noi incomprensibile. A un certo punto, ci si accorgeva degli scarponi neri che sporgevano dagli orli di stoffa, si percepiva il respiro che precedeva e seguiva il verso tenuto su note alte, di testa, quasi con delicatezza. Ci rendevamo conto che erano i contadini, e che quello era il loro Carnevale”.

I somari protagonisti del giorno di mercato

Giorgio Zampa lega i ricorsi al mercato settimanale e alla figura del somaro che a scuola indicava gli alunni meno bravi, mentre “oggi so che somaro è più vicino alla natura dell’animale, alle sue particolarità, al suo carattere. Anche se non ho mai avuto a che fare in modo diretto con un somaro, ho vissuto a lungo in mezzo alla specie, tra gente che li possedeva e li usava […] L’animale veniva usato in modo più diretto, continuo, che non altre bestie da lavoro, dei buoi o dei cavalli: i quali potevano dare l’impressione di essere essi a usare i padroni con le loro ombrosità ebizze” (“I somari”, Il Giornale, 30 agosto 1986).

3. I somari

Il mercato del sabato, con lo spettacolo di colorate bancarelle e con il via via di acquirenti soprattutto donne, sta smobilitando, lo “spettacolo” è finito, “passa lo spazzino con la lunga scopa di frasche e la cassetta a raccattare fatte di vacca, bucce di frutta, paglia: poca cosa, l’età dei consumi deve venire. E’ il primo pomeriggio le strade sono vuote, si sente vociare dalle cantine, qualche motore singulta per le sollecitazioni della manovella d’avviamento: i piazzisti se ne vanno, caricate le loro scatole su uno sgangherato autocarro”. I possidenti se ne vanno sui calessi, gli artigiani ritornano nelle botteghe. “Solo i somari, lungo un vialetto fiancheggiato da olmi sgraziati, rimangono a prolungare il giorno del mercato o della fiera, sono arrivati primi e partono ultimi, per questo protestano con i loro ragli, ma nessuno dà loro ascolto”.

I somari erano animali umili e preziosi, non avevano bisogno di sella ed erano soprattutto bestie da soma che raramente portavano a cavalcioni un contadino aggrappato alla criniera. Resistevano alla sete, mangiavano poco fieno o paglia; sembrava che non avessero diritti, ma in certi luoghi senza l’asino i contadini della montagna non avrebbero potuto sopravvivere afflitti da una cronica miseria: nessun contadino possedeva un cavallo, animale costoso e riservato ai possidenti, usava invece il somaro, perché i contadini delle montagne “vivevano fuori dal mondo, nutrendosi di castagne, granoturco e qualche po’ di cacio ma soprattutto di erbe selvatiche. Poco pane di frumento, un filo d’olio ogni tanto, il vino per la malattia”. Si potevano permettere solo una bestia umile e fedele, che consumava poco o niente. Solo “il sabato una strada del paese si riempiva di somari […] Non amati, scorbutici, sordi, vivi con nulla, ineliminabili dalle strade incise sullo scoglio […] così comuni da non distinguerne uno dall’altro, anzi dal non distinguerli punto, da dissolverli contro il grigio della creta, della ghiaia, della pietra”.

“Andiamo da Titì”. Il fascino del cinema muto

Giorgia Zampa, grande appassionato di cinema, parla della crisi di questo spettacolo, dello squallore della sale cinematografiche metropolitane, frequentate da rari spettatori, prive delle atmosfere di un tempo quando “andare al cinema” era una specie di rito. Dentro quelle sale semideserte, Zampa si rese conto “di assistere forse agli ultimi riti di una supposta decima musa […] sentii come con il cinema è proprio finito: il suo tempo è compiuto, quello che resta è un insistere inutile, e forse crudele.”

4. Rodolfo Valentino

Preso dalla nostalgia, Zampa avverte la necessità di rievocare le atmosfere del cinema dei vecchi tempi, quando a San Severino, negli anni Venti, per frequentare il cinema si diceva “andare da Titì”, il nome dell’imprenditore che aveva aperto un locale da proiezioni decorato e arredato, con una platea, una galleria e un palcoscenico con dentro lo schermo, mentre sul boccascena il professore Giulio Cruciani(noto latinista e letterato del tempo) aveva fatto incidere la frase Ombre non vane. Per ricordare le origini romane, il proprietario aveva collocato una statua della “Lupa con i gemelli” e una pianola che ripeteva i motivi musicali legati alle situazioni del film (“Titì”, Il Giornale, 17 giugno 1985).

5. Lyda Borelli

Quando il suono di un campanello avvertiva la cittadinanza che lo spettacolo aveva inizio, il piccolo Giorgio entrava in sala, “le mani strette a quelle dei genitori, mi avvicinavo a uno spettacolo cui ero impari e che tuttavia mi attirava in modo da indurmi a scene selvagge, se fossi stato lasciato a casa. I miei andavano in galleria, “posti distinti”, perché la platea era dominata da giovanotti ruminanti fave e nocciole, sempre pronti a venire alle mani, capaci di sibili laceranti e di urla orrende”. Giorgio era poco interessato alle avventure di Maciste o del grande Valentino, delle smanie amorose di Francesca Bertini o Lyda Borelli; le uniche cose che l’appassionavano erano le “comiche” di Harold Llyod, Cretinetti e Charlot; il primo film, che “lo avvinse, fino allo spasimo”, fu Il ladro di Bagdad con Douglas Fairbanks.

6. Charlie Chaplin 

7. Douglias Fairbanck

“Dal fondo della memoria vorrei recuperare qualcuna delle ombre vacillanti e striate, passate sullo schermo di Titì, (ma) di quelle sere mi restano suoni e rumori, più che immagini. Lo sfrigolio dei carboni nella cabina di proiezione, […] il cono luminoso che ne sgorgava; il tramestio, il vociare della platea, i berci, le proteste quando la pellicola si spezzava e lo schermo appariva di un bianco esaltato; i commenti beffardi di Dalmo, di Nino, di Leonida, di Venanzio, riconosciuti uno per uno come attori dietro le quinte; lo squillo del campanello che giungeva, affocato, nel chiuso della sala, a ricordare che fuori erano buio, vuoto, silenzio”.