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Il Giorno della Memoria 2024 e la poesia di Primo Levi

Quest’anno vogliamo dedicare la solenne ricorrenza del Giorno della Memoria a Primo Levi che non è stato solo uno dei grandi narratori del Novecento, ma anche un raffinato e sensibile poeta autore di una sola raccolta di versi scritti quasi in clandestinità, versi nei quali ha condensato le sue emozioni e i suoi sentimenti più intimi, quelli che non potevano entrare nelle sue pagine di prosa.

Lontano dai generi della poesia contemporanea, nelle sue composizioni ha voluto confrontarsi con i grandi temi della storia, con l’Olocausto e la guerra, il senso della vita, i limiti e le risorse dell’agire umano. Primo Levi ha sempre considerato la sua discontinua attitudine alla poesia come qualcosa di casuale e involontario, persino abusivo. Ha detto: “Scrivo poesie senza crederci troppo”.

Per lui la poesia è qualcosa di irrazionale, “un meccanismo che non conosco re si mette in moto improvvisamente per stimoli imprevedibili: una ragnatela, un germoglio, un lastricato urbano”.

Certo con la sua mentalità di scienziato, di illuminista convinto che la razionalità faccia dell’uomo un uomo, protagonista e testimone della massima tragedia del secolo, per Primo Levi doveva sembrare un groviglio sentimentale, una zona buia dell’io, un eccesso di emozioni, eppure ha lasciato composizioni importanti nelle quali non ha mai tradito la sua vocazione di fondo; quella di una limpida comunicazione delle sue idee, quella di lasciare una testimonianza umana e civile della sua esperienza di vita.

Il critico Franco Fortini a proposito di Primo Levi ha scritto: “Le sue poesie non sono abbozzi o accenni delle prose […] Sono accordi di preludio e vogliono dire: Ascoltate, questi accordi vengono dalla metà non razionale, si spendono subito e subito comincia il discorso implacabile della prosa e della ragione, ma leggendole non dimenticate mai quella nota stridula, inspiegabile e irragionevole da cui l’esistenza ha avuto inizio”.

Nella poesia di Levi risuona spesso un urlo di dolore e rare volte un richiamo alla speranza, ma in essa non c’è ma nulla di occasionale o d’improvvisato, ma c’è sempre l’ansia di testimoniare, il bisogno di raccontare sotto una spinta catartica, il dovere morale di riferire agli altri le sue esperienze anche quelle più terribili vissute nei lager, per cui essa risulta sempre “utile” per aprire gli occhi e muovere la coscienza del lettore.

A. P.

Partigia (*)

Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l’assedio dei tedeschi
Là dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell’INPS
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’è congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sarà duro,
Ci sarà duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci.
Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perché nell’albo non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non è mai finita.

(A ora incerta, 1984)

*Primo Levi entrò nella Resistenza dopo l’8 settembre 1943 nelle formazioni “Giustizia e libertà”. Il 13 dicembre 1943 fu arrestato dai fascisti e condotto nel campo di raccolta di Fossoli, quindi deportato ad Auschwitz.

Il tramonto di Fossoli (*)

Io so cosa vuol dire non tornare.
A traverso il filo spinato
Ho visto il sole scendere e morire;
Ho sentito lacerarmi la carne
Le parole del vecchio poeta:
“Possono i soli cadere e tornare:
A noi, quando breve la luce è spenta,
Una notte infinita è da dormire” (**)

(L’osteria di Brema, 1975)

*Fossoli è stato un campo di concentramento dove fascisti e nazisti raccoglievano gli ebrei italiani e oppositori politici per poi smistarli verso i campi di lavoro o ai capi per deportati.
**Questi versi sono del poeta latino Catullo

Buna (*)

Piedi piagati e terra maledetta,
Lunga schiera dei grigi mattini.
Fuma la Buna dai mille camini.
Un giorno come ogni giorno ci aspetta.
Terribili nell’alba le sirene:
“Voi moltitudine dai visi spenti,
Sull’orrore monotono del fango
E’ nato un altro giorno di dolore”.
Compagno stanco ti vedo nel cuore,
Ti leggo gli occhi compagno dolente:
Hai dentro il petto freddo fame niente
Hai rotto dentro l’ultimo valore.
Compagno grigio fosti un uomo forte,
Una donna ti camminava al fianco.
Compagno vuoto che non hai più nome,
Un deserto che non ha più pianto.
Così povero che non hai più male,
Così stanco che non hai più spavento,
Uomo spento che fosti un uomo forte:
Se ancora ci trovassimo davanti
Lassù nel dolce mondo sotto il sole,
Con quale viso ci staremmo a fronte?

(L’osteria di Brema, 1975)

*Nome dello stabilimento in cui ha lavorato il poeta

Delega

Non spaventarti anche se il lavoro o è molto:
C’è bisogno di te che sei meno stanco.
Poiché sensi fini, senti
Come sotto i tuoi piedi suona cavo.
Rimedia i nostri errori:
C’è stato pure chi, fra noi, S’messo in cerca alla cieca
Come un bendato ripeterebbe un profilo,
E chi ha salpato come fanno i corsari,
E chi ha tentato con volontà buona.
Aiuta, insicuro. Tenta, benché insicuro,
Perché insicuro. Vedi
Se puoi reprimere il ribrezzo e la noia
Dei nostri subbi e delle nostre certezze.
Mai siamo stati così ricchi, eppure
Viviamo in mezzo a mostri imbalsamati,
Ad altri mostri oscenamente vivi.
Non sgomentarsi delle macerie
Né del lezzo delle discariche: noi
Ne abbiamo sgombrate a mani nude
Negli anni in cui avevamo i tuoi anni.
Reggi la corsa, del tuo meglio. Abbiamo
Pettinato la chioma alle comete,
Decifrato i segreti della genesi,
Calpestato la sabbia della luna,
Costruito Auschwitz e distrutto Hiroshima.
Vedi: non siamo rimasti inerti.
Sobbarcati, perplessi;
Non chiamarci maestri.

(Opere II, 1988)

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