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È stata la mano di Dio
È stata la mano di Dio

Recensione: ‘È stata la mano di Dio’, film di Paolo Sorrentino

Paolo Sorrentino torna a Napoli, la sua città natale: non lo faceva dal suo lungometraggio di esordio, L’uomo in più (2001). Ora, vent’anni dopo, è di nuovo nel capoluogo partenopeo, e si racconta attraverso Fabio “Fabietto” Schisa, un liceale timido, riservato, fortemente legato alla propria famiglia. Il giovane vive la sua vita come tanti altri adolescenti: studia al liceo, ama le partite di Maradona, si diverte con i propri genitori, è infatuato della magnifica zia Patrizia, ed è circondato da pittoreschi parenti. Ma, un giorno, alla perdita dei genitori, Fabietto è costretto a vivere il dolore, a cercare risposte a questa vita, a questa realtà deludente e scadente: il suo animo, ancora fresco, di punto in bianco si ritrova a maturare, a pensare al proprio futuro.

È stata la mano di Dio, il nuovo film di Paolo Sorrentino, premiato con il “Leone d’argento – Gran premio della giuria” alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è ora nelle sale e, a breve, sarà su Netflix. Tagliamo corto: questo lungometraggio è un’inaspettata sorpresa (in positivo). Sorrentino indaga la propria gioventù con uno sguardo chiaro, pulito, sincero e, a tratti, spaesato, proprio come quello di un giovane costretto a capire la vita in maniera repentina, forzato a fare un salto improvviso e fulmineo nel mondo degli adulti. Fabietto diventa Fabio, cresce con la scomparsa dei suoi amati genitori, vive la solitudine e la metabolizza, covando un’inquietudine intima e profonda, senza cedere all’eccessiva depressione: sa che c’è una vita futura, ma non è facile intraprenderla. Sorrentino, con questo film, narra un vero periodo della sua vita e in parte lo romanza, senza cedere all’opulenza. Ha ben assorbito la lezione di Fellini, sa che la realtà in sé è scadente, prosaica: la realtà si completa con la fantasia, con la presenza di ricordi veri ma, al tempo stesso, rimodellati. Il regista, in questo viaggio di nascita e morte, di passaggi e di crescite, fa tornare a galla parte della sua adolescenza, in una Napoli vissuta ed interiore, non da cartolina turistica.

Le citazioni sono presenti, ma non opprimenti. Palese il richiamo, all’inizio, all’ingorgo sognato da Guido in , per non parlare delle inconfondibili scene sorrentiniane (come il lampadario a terra nel palazzo del dandy “san Gennaro”). Senza dimenticare la presenza della videocassetta di C’era una volta in America. Come mai questo richiamo? Perché nella magnifica opera di Sergio Leone il tempo ed il ricordo sono centrali, Noodles, tra i fumi dell’oppio, ricorda e modifica il passato, ricostruisce il tempo e, probabilmente, immagina anche il futuro. Lo stesso fa Sorrentino attraverso Fabio: ricostruisce il tempo, innesta i suoi ricordi, modella ciò che è accaduto, magari aggiungendo qualche desiderio nascosto, qualche esperienza mai avuta in realtà. È stata la mano di Dio è una tappa fondamentale della carriera del regista, dove dimostra di sapersi distaccare dall’eccessivo surrealismo, dallo spinto manierismo, esprimendo la sua capacità di attingere dalla propria vita e dai propri sogni senza scadere nel melenso. Come Fabio sale sul treno per raggiungere Roma, per andare avanti con la propria vita, il cinema di Sorrentino fa un importante passo in avanti: entrambi salgono sullo stesso treno, quello della maturità, lo stesso sul quale salì, per crescere e tentare la fortuna, Moraldo, il più giovane protagonista de I vitelloni.

Silvio Gobbi

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