di Alberto Pellegrino
E’ un merito di Mercedes Arriaga Flórez e Daniele Cerrato, due studiosi dell’Università di Siviglia e dell’Università Ateneum Gdansk (Polonia), avere riscoperto una “generazione perduta” di poetesse marchigiane di cui si era perduta persino la memoria. Le loro opere sono state pubblicate in un prezioso libretto intitolato Tacete, ‘O maschi. Le Poetesse marchigiane del ‘300 (Argolibri, Ancona, 2020) a cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini, un testo arricchito dalle belle illustrazioni di Simone Pellegrini, un artista anconetano che insegna pittura nell’Accademia di Belle Arti di Bologna. Tre poetesse contemporanee, Mariangela Gualtieri, Antonella Anedda e Franca Mancinelli, hanno inoltre stabilito con i loro versi un dialogo tra epoche e scritture diverse e apparentemente lontane con il risultato di attualizzare e rafforzare il messaggio che arriva da un lontano passato ma che ci appare straordinariamente attuale.
Nel saggio introduttivo i due studiosi hanno ricordato che Andrea Gilio da Fabriano, uno degli eruditi più importanti del Rinascimento italiano, aveva pubblicato nel 1580 il trattato Topica poetica sulle diverse parti del discorso e sulle figure retoriche, nel quale nella parte finale del volume l’autore aveva incluso dieci componimenti di tre poetesse marchigiane fino a quel momento sconosciute e vissute intorno al 1350 nell’area del fabrianese. L’aspetto del tutto straordinario è che queste scrittrici tutte in comunicazione tra loro a dimostrazione dell’esistenza una circolazione culturale non solo tra autori maschi ma anche tra donne letterate, che cercavano di conquistare un loro spazio nella società del Trecento. In quel trattato erano riportati quattro sonetti di Ortensia di Guglielmo, una nobildonna di Fabriano, una poetessa petrarchesca e per il suo stile “degna di moltissima lode”. Altri quattro sonetti erano assegnati a Leonora della Genga, un’altra nobildonna di Fabriano anche lei seguace del Petrarca. Infine, due sonetti erano stati scritti da Livia da Chiavello, vissuta tra 1380 e il 1410, una dama appartenente a una illustre famiglia marchigiana in quanto moglie di Chiavello Chiavelli, Capitano delle milizie di Filippo Maria Visconti Duca di Milano, divenuto successivamente Signore di Fabriano. Nel 1686 Giovanni Cinelli aveva pubblicato un sonetto di Elisabetta Trebbiani da Ascoli, amica e ammiratrice di Livia da Chiavello e nel 1730 Giovanni Mario Crescimbeni, nella Storia della volgar poesia, aveva Giovanna d’Arcangelo di Fiore da Fabriano, una poetessa discepola di Livia da Chiavello.
Sulla base di queste notizie e di studi più recenti è possibile affermare che queste poetesse marchigiane possono legittimamente appartenere alla prima generazione di scrittrici della letteratura italiana. E’ rilevante il fatto che esse vivono nello stesso territorio e nello stesso periodo storico, ma soprattutto che sono legate fra loro da affinità culturali, tematiche e affettive; sono inoltre capaci di tessere le lodi delle loro amiche e maestre, di definirle degne di onori, di farne oggetto di ammirazione e venerazione. Leonora della Genga ha dedicato due sonetti a Ortensia di Guglielmo; a sua volta Elisabetta Trebbiani si è rivolta a Lidia da Chiavello, definendola “perita d’onne arte/La qual sì a l’orecchi, ed occhi piace/O se veggia in persona, o scriva in carte”. Sempre la Trebbiani si rivolge all’amica di Fabriano per chiedere che le possa fare dono di quella preziosa materia prodotta dalle celebri cartiere di quella città (“La carta bianca di più tu l’accenna/Che del suo bel Paese ella ne mandi/Per scrivervi sue gesta inclite e sole”).
Le poetesse marchigiane non solo affermano il diritto delle donne di partecipare ai problemi delle relative comunità di appartenenza, ma rivendicano un riconoscimento che legittimi la loro presenza nel mondo della letteratura, non come icone femminili create dalla scrittura maschile, ma come vere e proprie autrici che aspirano alla dignità e alla gloria letteraria al pari degli scrittori dell’altro sesso.
Per questi motivi esse non sono viste in modo benevolo da una società che assegna alle donne un ruolo specifico, relegandole all’interno della sfera privata da vivere con discrezione e riservatezza. Nonostante le difficoltà e le ostilità, queste autrici sostengono le stesse ragioni presenti nella scrittura femminile nel Trecento sia nella prosa religiosa, sia nella poesia lirica: essere dei soggetti femminili capaci di sfidare le convenzioni e i pregiudizi per collocarsi allo stesso livello degli uomini. Le poetesse marchigiane vengono così a costituire il tassello mancante nel quadro letterario del Medioevo, perché mettono in evidenza come la dissidenza femminile non sia stata un fenomeno marginale, ma una realtà dotata di una propria espressione letteraria in ambito religioso (si vedano Chiara d’Assisi, Caterina da Siena) e nella letteratura laica, basti pensare alle prime poetesse italiane come Compiuta Donzella e possono inoltre queste essere messe a confronto con le poetesse della tradizione trobadorica provenzale presenti in Francia e in Spagna. Queste donne non solo affermano il valore del proprio io in amore e si oppongono alle imposizioni familiari in materia di matrimonio, ma rifiutano di essere emarginate e derise, di essere considerate “indecenti” e “poco femminili”, di essere addirittura indicate come “donne mostro” o “errori della natura”. Al contrario, soprattutto Ortensia di Guglielmo e Livia da Chiavello, per la personalità, lo stile, i temi trattati e i modelli femminili idealizzati, possono essere avvicinate alle straordinarie poetesse del Rinascimento come Gaspara Stampa, Veronica Franco e Vittoria Colonna.
Queste scrittrici, in alcune composizioni, offrono una diretta testimonianza del loro impegno politico e sociale. In un sonetto Leonora della Genga rivendica parti diritti tra uomo e donna (“Tacete, o maschi, a dir, che la Natura/A far il maschio solamente intenda, /E per formar la femmina non prenda, /Se non contra sua voglia alcuna cura. […] Sanno le donne maneggiar le spade, /Sanno regger gl’ Imperi, e sanno ancora/Trovar il cammin dritto in Elicona”). Ortensia di Girolamo si rivolge direttamente al Papa per condannare la sua permanenza ad Avignone, rimanendo lontano da Roma senza ascoltare i lamenti dei fedeli abbandonati dal suo Pastore (“Ecco, Signor, la greggia tua d’intorno/Cinta di lupi a divorarla intenti;/Ecco tutti gli onor d’Italia spenti;/Poiché fa altrove il gran Pastor ritorno”). Lidia da Chiavello condanna con grande forza poetica le lotte intestine che insanguinano le vie delle città italiane (“Veggio di sangue uman tutte le strade/D’Italia piene, il qual per tutto corre: /E disdegnoso e reo Marte discorre/Lance porgendo ognor, saette, e spade. […] Ma se desio di vera gloria accende/L’italico valor rivolga l’arme/Contra colui, che ‘l Cristianesmo sface /Contro se stesso ognun più tosto s’arme; /Perché quel Dio, ch’in su la Croce pende, /Dio di guerra non è, ma Dio di pace”).