Alexia, da bambina, subisce un brutto incidente in macchina e, a seguito dell’urto, le viene impiantata una placca di titanio nel cranio. Una volta adulta, lavora come ballerina nei saloni delle automobili: le sue danze erotiche sulle auto sono ammirate da molti eccitati spettatori. Ma la donna è una creatura violenta: appena può, uccide chiunque le capiti a tiro, chiunque provi ad avvicinarsi troppo a lei (anche chi ha buone intenzioni). Inoltre, ha un’inusuale affinità con le auto, tanto da arrivare a fare sesso con un’automobile, rimanendo incinta. Cerca di nascondere la gravidanza e, dopo una serie di efferati omicidi, decide di fuggire e di spacciarsi come il figlio scomparso di un comandante dei vigili del fuoco: si taglia i capelli e si spacca il naso per somigliare al ragazzo visto sui manifesti delle persone sparite. Il comandante, Vincent, accoglie Alexia credendola suo figlio (o fa finta di crederlo?), e tra queste due creature isolate e disperate, nasce un legame inspiegabile; nel mentre, la gravidanza di Alexia si fa sempre più pesante e difficile da nascondere.
Questa è la sinossi di Titane, film vincitore al Festival di Cannes 2021, secondo lungometraggio scritto e diretto dalla regista Julia Ducournau (il primo è Raw, 2016). Una vittoria che premia un’opera controversa, difficile da inquadrare e valutare. Titane è un lungometraggio dalla regia curata con musiche ben incastonate nell’azione (come la bizzarra, ma efficace e tarantiniana, scelta di inserire la canzone “Nessuno mi può giudicare” mentre Alexia compie una carneficina all’interno di una villetta). La regista, classe 1983, realizza un film al di fuori di ogni genere, indefinibile, e, a tratti, volutamente fastidioso. L’universo della Ducournau è abitato da una umanità che non accetta sé stessa, incapace di amore, di vita, di passione: umani impossibilitati a comunicare tra di loro, più simili a macchinari senz’anima che a esseri viventi. Alexia è il prototipo di questa umanità gelida, estremamente violenta, spaventata, ma la sua dolorosa gestazione porta alla luce un neonato ibrido, tra l’umano e la macchina: che cosa rappresenta? Il simbolo di una nuova specie umana? Esseri viventi fluidi in tutto, capaci di passare da un genere sessuale all’altro, da una categoria ad un’altra, dall’umano alla macchina, come accade ad Alexia stessa? Titane rimpolpa questa idea embrionale con scene splatter e situazioni assurde, ma la costruzione, nel suo insieme, segue l’andazzo di una montagna russa: sale e scende di continuo; in certi momenti la curiosità ti aggancia, in altri vorresti lasciar perdere di seguire la vicenda (qualche dialogo in più avrebbe aiutato l’opera). Titane vuole distruggere ogni categoria di genere, cinematografico e non, ma riesce soprattutto a far parlare di sé e del perché della sua vittoria a Cannes: chi lo ama festeggia per il riconoscimento ottenuto, chi non lo sopporta, si domanda come possa aver trionfato!
Silvio Gobbi