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Home | Cultura | Recensione cinematografica: “I Care a Lot”, di J Blakeson
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I Care a Lot
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Recensione cinematografica: “I Care a Lot”, di J Blakeson

Pubblicato da Mauro Grespini in Cultura 562 Visite

Marla Grayson è una tutrice legale: il tribunale le affida, di continuo, gli anziani incapaci di badare a loro stessi (perché rimasti da soli o con dei parenti incapaci di aiutarli). Lei si occupa di ogni aspetto della vita dei suoi assistiti, curando il loro intero patrimonio, mentre i signori vengono trasferiti in una casa di riposo. Ma Marla non è una benefattrice, il suo è un gioco sporco: corrompe medici, direttori di case di riposo, chiunque, affinché possa accaparrarsi i migliori vecchi, quelli più ricchi, per poter mettere mano sui loro beni senza infrangere alcuna legge. La sua crudele attività è proficua, fino a quando non diviene la tutrice di Jennifer Peterson, una signora apparentemente sola, ma, in realtà, la donna è la madre di un boss della mafia russa: da quel momento, per Marla cominciano i guai.

I Care a Lot è il nuovo film di J Blakeson, uscito il 19 febbraio su Amazon Prime Video. Un’opera spietata, capace di trattare un tema così delicato (lo sfruttamento delle persone anziane da parte di chi dovrebbe tutelarle) con un misto di ironia, serietà e cinismo: una schietta denuncia che si mescola con i toni della commedia cupa. Marla è una donna glaciale, determinata, dalla personalità netta e tagliente: tanto è precisa nella cura del suo aspetto (con i suoi capelli a caschetto e l’abbigliamento sempre impeccabile), tanto lo è nell’ottenere ciò che vuole. Divide il mondo in forma binaria: c’è chi comanda e chi viene comandato, leoni e agnelli, ricchi e poveri. Non ci sono vie di mezzo: o si è vincitori o si è perdenti. Lei si autodefinisce “leonessa”, e lo è: la sua fermezza non è scalfita nemmeno dalla violenta mafia russa. Tra dramma e commedia dark, I Care a Lot è un film che intrattiene fino alla fine, trattando temi scottanti ed attuali senza pedanteria né lentezza.

Una storia, alla fine, meno folle di quanto sembri: Marla Grayson è un falco, uno dei rapaci d’oggi. Incapace di provare empatia e affetto per il prossimo, al di là delle poche persone che ama (come la socia e amante Fran), lei è una dei tanti squali del profitto: pronta a devastare la vita di chiunque per il suo tornaconto. Nulla di personale, è solo business: non esistono persone e morale, solo denaro e guadagni. Sostanzialmente, ha seguito le tappe del “sogno americano”: partire da zero, lavorare sodo e farsi da sé. Lo ha fatto, incappando in una delle più comuni deviazioni di questo schema: calpestare gli altri pur di arricchirsi. La storia del cinema è piena di spietati uomini d’affari, come Gordon Gekko (Wall Street, di Oliver Stone), Jordan Belfort (The Wolf of Wall Street, Martin Scorsese) e Daniel Plainview de Il petroliere (There Will Be Blood, Paul Thomas Anderson). Quest’ultimo, drena il petrolio dalle terre altrui, utilizzando ogni mezzo (lecito e non) per allargare il suo impero, e Marla ha la stessa fame di autorità, segue le stesse orme, cambiando soltanto la fonte di ricchezza. Tra i due personaggi ci sono differenze evidenti (Plainview è drammatico e titanico, mentre Grayson ha uno stile molto più sobrio), ma il nucleo è lo stesso: spolpare, sempre, al massimo le proprie prede. Nei secoli, gli sciacalli della ricchezza hanno solo cambiato aspetto, non l’obiettivo.

Quando si arriva ad un livello così alto di potere e malignità, gli avvoltoi non si fanno più la guerra tra di loro: si accordano, si mettono in società, e così le ricchezze moltiplicano. A quei livelli di opulenza, vale la battuta di Peter Thiel: «La concorrenza è per i perdenti». E Marla non è una perdente, non lo è mai, nemmeno quando non c’è più nulla da fare.

Silvio Gobbi

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recensione cinematografica 2021-02-21
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TAG: recensione cinematografica

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