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Il ruolo del deserto nei film di Buñuel, Pasolini, Antonioni e Wenders

Il deserto: arido o glaciale, desolato, con pochi e sparuti ciuffi di vegetazione. Sabbia, polvere e solitudine: così siamo soliti figurarci quel luogo, dove preponderante è il peso del nulla, il vuoto assoluto. Ma può anche essere non mortifero, può porre gli individui davanti a nuove sfide. Sin dall’antichità, è un luogo che ha rappresentato il simbolo del contatto dell’uomo con lo spirito, e della sfida dell’essere umano con le sue paure e le tentazioni. Quante storie conosciamo di personaggi pronti a partire per il deserto per ritrovare loro stessi. Non solo la religione, l’arte, la letteratura hanno dato importanza a questo luogo concreto e metafisico allo stesso tempo: anche nel cinema, alcuni autori, hanno raffigurato il deserto come un ambiente capace di stimolare nei protagonisti pensieri ed azioni tutt’altro che sterili e vuoti.

Emblematica è la pellicola Simón del desierto, di Luis Buñuel (1964). Simón, asceta stilita medievale, vive da tempo sulla cima della sua colonna, resistendo alle continue tentazioni del diavolo. Con intelligente dissacrazione, Buñuel raffigura un uomo costantemente messo alla prova, in un deserto che è la culla del demonio: un ambiente vivo, che lo osserva continuamente, come se fosse la vista della demoniaca creatura che tenta di corromperlo. Alla fine, Simón si trova catapultato nel mondo moderno, nel caos della città, accompagnato dalla donna-demone che lo ha continuamente perseguitato. Si ritrova negli anni Sessanta, in mezzo ad una caotica discoteca: un luogo affollato, ma più desertico di dove viveva prima. Ha ceduto al male e si ritrova nell’età contemporanea, dove il maligno sembra albergare beatamente nel suo luogo prediletto di oggi, la città. Così vede il regista le metropoli: folle, gente che danza con il male senza alcuna preoccupazione né coscienza.

La folla è in ogni luogo urbano, come la stazione di Milano da dove parte il padre, uno dei protagonisti di Teorema di Pier Paolo Pasolini (1968). Un uomo ricco che abbandona, nel finale dell’opera, la sua famiglia, dopo lo sconvolgente arrivo di uno sconosciuto in casa. Un uomo con il quale tutti i membri hanno un’avventura sessuale, capace di incrinare così ogni loro precostituita certezza. E questo padre di famiglia abbandona Milano, la metropoli, l’affollamento dove è finito il moderno Simón, per andare (forse ritornare?) in un deserto nero. E lui finisce lì, sperduto in questo luogo nudo, dove può soltanto urlare a quel paesaggio che non ha mai fine, a quel deserto che lo ha ingoiato fisicamente e mentalmente: l’ambiente si fa rappresentazione ambientale del suo Io. Il padre è fuggito dalla sua realtà borghese, ma la desolazione è sempre con lui perché «Ogni viaggiatore fugge, ma dà fastidio non poter lasciare alla stazione il vero essere da cui bramiamo allontanarci» (Nicolás Gómez Dávila). Ma il deserto non è solo quello cupo pasoliniano, quel buco nero in terra. Può essere anche un caldo luogo della vita.

Come per Mark, il protagonista di Zabriskie Point (Michelangelo Antonioni, 1970). Un giovane che scappa da Los Angeles per sfuggire dalla polizia, a seguito delle contestazioni studentesche. Fugge nel deserto volando con un aereo monoposto, fino ad atterrare nello “Zabriskie Point”, nella Death Valley, dove incontra una ragazza, Daria. I due si frequentano, esplorano la zona. Si uniscono carnalmente, tra la polvere ed il caldo, in un deserto che non è più solitudine e disperazione, ma vita e rinascita: compaiono, dal nulla, tante coppie che fanno sesso come loro. Antonioni amplifica così l’amore dei due ragazzi in quella valle sperduta, dove le polverose insenature del terreno si fanno fecondi grembi di sesso e vita. Un luogo dove è possibile la nascita di una nuova vita. Si finisce nel deserto per affrontare le prove (come Simón), si fugge in esso e nel suo vuoto per vivere il vuoto che si ha in sé (come il padre di Teorema), oppure ci si ritrova lì, per caso e, con fortuna, nasce l’amore (come per Mark e Daria).

Ma quella terra può anche essere un luogo sospeso tra trauma e voglia di riscatto, come avviene per il protagonista di Paris, Texas (Wim Wenders, 1984), un uomo perso nel deserto, dove ha vagato per anni, tra la coscienza e l’incoscienza di ciò che stava facendo, tornando poi, quasi per caso, tra gli esseri umani dai quali era fuggito. Wenders traccia la figura di un solitario apparentemente debole che, nella realtà, è capace nel profondo di trovare la forza per tornare a rimettere insieme i pezzi di un passato frammentato. Una figura che ricorda in parte l’esiliato di E. M. Cioran, colui che superficialmente sembra rassegnato alle sue miserie, ma che in realtà è forte, «un ambizioso, un deluso aggressivo, un amareggiato e un conquistatore insieme». Ha vissuto per anni nel deserto americano come in un limbo, riflettendo senza poter agire: una volta uscito da quella condizione ed aggiustati i suoi problemi familiari, può serenamente riprendere la strada della solitudine con minore confusione e maggiore serenità.

Buñuel, Pasolini, Antonioni e Wenders sono solo quattro dei registi che hanno fatto del deserto non un semplice paesaggio amorfo, ma un vero e proprio protagonista, silenzioso ed al tempo stesso drammaticamente fondamentale, capace di incanalare le azioni dei personaggi, le loro paure, i dubbi, i pensieri. Un ambiente secco che si fa vitale, facendo dell’ambientazione non un semplice elemento di contorno, ma un vero e proprio personaggio che agisce, attraverso il suo fertile silenzio, sui soggetti che lo attraversano e lo abitano.

Silvio Gobbi

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