Che cos’è il mare? Una poltrona con braccioli di legno. Cos’è uno zombie? Un fiorellino giallo. E l’autostrada? Un vento molto forte. Questo assurdo elenco è una delle tante forme del continuo lavaggio del cervello a cui sono sottoposti i tre giovani (un ragazzo e due ragazze) protagonisti del film Dogtooth (Kynodontas, 2009), del regista greco Yorgos Lanthimos. I tre, pur avendo un’età compresa tra i venti ed i trent’anni, non sono mai usciti di casa: i genitori li hanno rinchiusi nella loro villa, per desiderio di possessione e malata protezione, senza mai farli entrare in contatto con il mondo esterno. Non conoscono nulla, nemmeno sanno riconoscere un gatto. Tre individui ridotti a bestie in cattività, completamente depauperati delle loro vite, crescono senza conoscere la realtà, senza coltivare i sentimenti e l’empatia: adulti ed infantili, in perpetua oscillazione tra ingenuità incredibile e violenza esasperata. Questa gabbia, costruita dai genitori, comincia a scricchiolare nel momento in cui il padre di famiglia porta una donna per far sfogare sessualmente il figlio maschio. La donna entra in contatto anche con una delle figlie (la maggiore) e, da questo incontro saffico, l’impermeabile mondo costruito dalla madre e dal padre inizia a sgretolarsi. Le sale italiane hanno aspettato undici anni prima di proiettare questo film, questo lavoro dissacrante, asciutto e diretto, intelligentemente violento, impossibile da dimenticare una volta visto. Un film sulla negazione della libertà, sul grande giogo che una famiglia può imporre ai propri figli: metaforicamente, il passato che può e vuole impedire lo sviluppo del futuro. Il film non è lungo (poco più di un’ora e trenta), ma è denso e concentra ogni più forte angoscia percepibile dallo spettatore: non c’è il brivido degli horror, non c’è la suspense del thriller, ma c’è l’ineluttabilità della violenza ed il senso di smarrimento che affossa il pubblico nel vedere la sofferenza di queste tre vittime. Sine ulla spe, sine ullo auxilio (senza alcuna speranza, senza alcun aiuto): così questi tre giovani vivono la loro vita, in una mortifera e malata monotonia, spezzata soltanto dagli esercizi imposti dai genitori e dai giochi improvvisati tra di loro. Ma la tensione esplode nel momento in cui la figlia maggiore prende delle videocassette portate dalla donna che viene per fare sesso. La giovane, tramite questi film, entra in contatto con il mondo esterno: si ritrova, a quasi trent’anni, catapultata nel mondo di fuori, quello che non aveva mai conosciuto né immaginato. Lanthimos non ci fa vedere cosa guarda, ce lo fa capire, tramite le frasi da lei ripetute dopo la visione delle pellicole: cita Rocky Balboa, gli squali ed altre icone cinematografiche, tutti cult del cinema di massa, il primo cinema con cui si entra, solitamente, in contatto da piccoli. Un vero omaggio al cinema in sé, in ogni sua forma: un’arte, non importa se pop o autoriale, sempre capace di portare le persone ad evolvere, a mutare, a guardare in faccia la realtà sotto un altro aspetto, con nuovi occhi. Questo è l’omaggio alla Settima Arte di Lanthimos, inserendo l’evocazione di questi frammenti di cinema popolare: il cinema, in ogni sua forma, è sempre capace di portare le persone alla rottura del proprio status quo, come accade per la giovane protagonista. E da lì crescono la violenza, la voglia di sesso e la necessità di una irraggiungibile fuga. Tutto ciò è raccontato in maniera secca, quasi scientifica, da parte del regista greco che, con questa opera, nel 2009, si è aggiudicato il premio “Un Certain Regard” al Festival di Cannes, diventando uno dei registi più famosi a livello internazionale. Dogtooth non è un film per moralisti, perbenisti e persone che si traumatizzano facilmente: se volete uscire tranquilli dopo la visione di un film, evitate questa pellicola. È un’opera sulla violenza e sulla forza esplosiva che può avere il cinema, un film dove l’arte cinematografica è celebrata a trecentosessanta gradi. Non un cuscino sul quale adagiarsi, ma una scossa elettrica lungo tutto il corpo.
Silvio Gobbi