Era il 1990: “Cuore selvaggio” di David Lynch vinceva al Festival di Cannes.
Sailor Ripley e Lula Pace Fortune sono due giovani amanti: vivono un amore sincero e passionale, profondo e carnale. Purtroppo Sailor finisce in galera per aver ucciso un uomo, difendendosi da un’aggressione. Uscito di prigione, fugge con Lula verso il sud degli Stati Uniti. La madre della ragazza, Marietta, vorrebbe vedere il giovane morto: non per esagerato amore nei confronti della figlia, ma perché lui conosce i pericolosi segreti della signora. La donna non vuole che Lula sappia la verità e muove tutte le sue conoscenze per rintracciare i due giovani e uccidere Sailor. Lula ed il giovane amante proseguono la loro fuga, tra corse in macchina, sesso nei motel e serate passate a ballare il Rock & Roll, rafforzando il loro amore lungo il cammino. David Lynch con Cuore selvaggio (Wild at Heart) spalanca il proprio cinema ad una miriade di generi: una pellicola mista, impossibile da definire con una sola etichetta. La sua complessità incarna pienamente il decennio che sta iniziando: i kitsch, fagocitanti, fluidi e complessi anni Novanta. Vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 1990 (presidente della giuria Bernardo Bertolucci), il film viene accolto freddamente (e negativamente) da gran parte del pubblico e della critica: Lynch spiazza tutti, come al solito e, nel pieno della lavorazione della serie Twin Peaks, tira fuori questo film, prendendo come soggetto il romanzo di Barry Gifford. Scrive la sceneggiatura e infarcisce di tocchi assurdi, eccessivi e misteriosi, questo viaggio «on the road» sospeso nel tempo, non collocabile in un’epoca precisa: per David Lynch, il tempo passa, ma non è mai una entità delimitabile. Una pellicola che si caratterizza per il grande amore, fisico ed emotivo, tra i due protagonisti, ma i vari flashback, la forte presenza di figure “lynchiane” (ad esempio, le particolari presenze nei locali o le ballerine, quasi felliniane, dell’ultimo motel), rendono il tutto tanto concreto quanto, al tempo stesso, evocativo: c’è qualcosa che va al di là della carne, della percezione dei protagonisti, un senso di paura, di fugacità, mai placabile. Come sempre, per Lynch, il mondo è un mistero complesso, difficile da risolvere (probabilmente irrisolvibile a priori). Cuore selvaggio è un film che racchiude tutti i generi: azione, dramma, thriller, commedia, grottesco, musical, romantico, surreale e pulp. Ancor prima che Tarantino si impossessasse del genere pulp, questa pellicola contiene delle trovate tarantiniane ante litteram (la morte di Bobby Peru ne è un esempio eclatante). È anche un omaggio alla forza dell’amore, e al cinema hollywoodiano del passato, in particolar modo a Il mago di Oz, pellicola cara al regista: Lula è Dorothy, la madre è la strega cattiva (c’è addirittura, alla fine, il pupazzo di un leone che ricorda il leone codardo, l’amico di Dorothy). Ma nel profondo, l’anima del lungometraggio è pervasa da un’ombra che costantemente aleggia, pienamente incarnata nella scena della ragazza coinvolta in un incidente stradale. Di notte, mentre Sailor e Lula sono in viaggio, notano un’automobile fuori dalla strada. Tutti sono morti, tranne una giovane sanguinante, in preda al panico, la cui unica preoccupazione è l’aver perso il portafogli con tutti i documenti. La ragazza è esagitata e fortemente ferita, Sailor e Lula non riescono ad aiutarla e possono solo assistere alla sua disperazione, fino alla sua morte. Con la sua dipartita, c’è uno spartiacque: da lì in poi, la vicenda di Sailor e Lula entra nel massimo della tensione, la morte della giovane preannuncia i futuri guai in cui si stanno cacciando. Lo strazio della ragazza simboleggia il dolore e la morte: il buio che si alterna alla luce, al fuoco, alla passione, ai colori accesi, alla foga dei due giovani amanti. Odiato da molti perché ritenuto lento, incomprensibile ed ermetico, in realtà Cuore selvaggio è la celebrazione di tutti i generi cinematografici: quasi una commemorazione del cinema del passato con lo sguardo rivolto al cinema del futuro, quello partorito dagli anni Novanta, alla ricerca di una propria voce, consanguinea ma distinguibile da quella dei padri. La giuria ci vide lungo nella premiazione: pur avendo compiuto trent’anni, il film non è invecchiato di un giorno.
Silvio Gobbi