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Memorie di un assassino
Memorie di un assassino

La recensione: “Memorie di un assassino”, del premio Oscar Bong Joon-ho

Nel 1986, una piccola cittadina della Corea del Sud è sconvolta da una serie di crimini violenti: varie ragazze vengono stuprate ed uccise da un misterioso assassino. La polizia locale brancola nel buio: gli ispettori, provinciali e violenti, non riescono a sbrogliare questa matassa. Il detective Park Doo-man (Song Kang-ho) è un pubblico ufficiale sfiduciato e dai metodi grezzi, incapace di scovare l’assassino. Viene affiancato da un altro ispettore proveniente da Seul, Seo Tae-yoon (Kim Sang-kyung), un poliziotto più razionale ed arguto nei metodi di indagine. Tra i due è subito attrito: due modalità d’azione differenti, due volti della Corea del Sud che si scontrano in un delicatissimo caso, dove l’unico a vivere indisturbato è il killer. Park assorbe un briciolo della razionalità di Seo e quest’ultimo viene talmente coinvolto da questa irrisolvibile e folle indagine da arrivare all’esasperazione: gli sviluppi incredibili della vicenda trascinano l’intero corpo di polizia ed i due detective protagonisti in un’infernale ricerca senza fine. In più, lo sfondo della vicenda è una Corea del Sud in subbuglio totale: la popolazione è sempre più insofferente nei confronti del governo autoritario e repressivo, le manifestazioni violente crescono di giorno in giorno in un marasma generale ed insanabile.
Memorie di un assassino (Memories of Murder) è un film del 2003 del premio Oscar Bong Joon-ho (Parasite). Uscito solo ora nelle sale cinematografiche italiane, non è il classico thriller, non è il noto film poliziesco: Bong Joon-ho prende spunto da un vero fatto di cronaca nera sudcoreana per realizzare un’opera che indaga nel profondo la sua società con le sue contraddizioni. L’inafferrabile killer di Memorie di un assassino non è soltanto un personaggio di cronaca criminale, ma è una metafora: lo specchio dei fallimenti dell’autoritario regime, un governo che sa essere forte con i deboli, ma incapace di risolvere seriamente i problemi e punire i veri colpevoli. Una nazione violenta e repressiva, buona solo a picchiare gli studenti e costringere la popolazione ad esercitazioni militari di emergenza: lo Stato cerca di crogiolare ed abbindolare il popolo con una tanto ostentata quanto fallace sicurezza. Bong Joon-ho dirige la storia nel modo più diretto e naturale possibile: mostra a noi le scene così come sono, cercando di ridurre (apparentemente) al minimo il suo sguardo, ma enfatizzando, all’occasione, ciò che vuole sottolineare. Tende a lasciare libero l’occhio dello spettatore, a far sì che sia il fruitore a realizzare il suo personale montaggio, ma quando vuole che il pubblico si concentri su di un particolare dettaglio, su di un personaggio, ecco che l’autore inquadra ciò che desidera mostrarci con particolare enfasi, con impellente necessità. Così facendo, egli intende riportarci al tema conduttore, alla ricerca dell’assassino: non vuole che lo spettatore faccia la fine dei suoi poliziotti, capaci di vedere tutto senza saper cogliere ciò che conta. Park e Seu sono motivati fino al midollo, ma incapaci di afferrare, al momento giusto, i dettagli fondamentali per risolvere il caso: è sempre troppo tardi, arrivano sempre dopo, quando ogni possibilità è bruciata, come bruciata è la carne che il regista ci mostra in alcune scene. Il tempo non muta la situazione: i crimini continuano ed il killer rimane un’ombra irraggiungibile. Gli ispettori sfiorano il colpevole, ed il criminale non si fa prendere. Non ci resta che lo sguardo perso e costernato di Park: possono passare gli anni, può cambiare il governo, la società e via dicendo, ma la verità di fondo è che il male, in ogni sua forma, è sempre un passo avanti a noi, inarrestabile.

Silvio Gobbi

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