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David Lynch
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Oscar alla carriera a David Lynch: il pittore del cinema tra passato e presente

«Every time you do something like painting – or whatever – you go with ideas, and sometimes the past can conjure those ideas and colour them. Even if they’re new ideas, the past colours them». Quando si dipinge, o si fa cinema, o si intraprende qualsiasi attività creativa, il passato può far capolino ed influenzare ciò che si sta creando. Così dichiara David Lynch nel documentario incentrato su di lui David Lynch – The art life (2016). Ogni volta che si è alle prese con qualcosa di nuovo, ciò che ci è accaduto, ciò che abbiamo visto, in qualche modo modella ciò che facciamo: il passato colora le idee del momento. Questa è una delle sfaccettature della poetica dell’autore, nato nel Missouri nel 1946, uno dei registi viventi più noti, che riceve il 27 ottobre l’Oscar alla carriera. Un artista prestato alla cinepresa: lo stile espressivo derivante dai quadri si nota in ogni suo film, in ogni sua inquadratura. Capace di dar vita ai colori, all’ambiente, rendendo ogni rappresentazione un insieme di ricche sfumature che viaggiano tra il sogno e l’incubo: dagli inizi negli anni Sessanta ad Inland Empire (2006), le sue pellicole sono sempre delle tele in movimento, dove Surrealismo ed Espressionismo si fondono in una nuova materia (pochi altri registi sanno far parlare così i colori e le immagini, come Julian Schnabel, Pedro Almodóvar, Peter Greenaway ed Alejandro Jodorowsky). Artista sin da giovanissimo, influenzato fortemente da Kokoschka, dalle figure strazianti di Francis Bacon e dallo stile sospeso tra realismo e metafisica di Edward Hopper: «Edward Hopper è un altro artista che amo, ma questo concerne più il mio cinema che i miei quadri. Comincio immediatamente a sognare, quando guardo le sue opere. Lo stesso mi capita con Bacon: riesco sempre a prendere il volo davanti ai suoi quadri, così come potrei farlo con un brano musicale» [1]. Infatti, nei personaggi di Lynch, lampanti sono le influenze angoscianti delle visioni di Bacon e negli ambienti notiamo sempre quella punta di mistero che percepiamo nelle tele di Hopper. La passione per la pittura sfocia nel bisogno di movimento, nell’azione, nel cinema. Dopo vari corti e mediometraggi, con Eraserhead (1977) egli rappresenta, in un film, il suo intero universo: un’opera alienante, tetra, con dialoghi ridotti a zero, dove suoni ed immagini creano un ambiente così claustrofobico ed intrigante del quale non si può fare a meno. Con questo primo lungometraggio, Lynch espone tutto quello che aveva da dire di sé: in esso troviamo i temi, gli stili, la visione del mondo che poi riprenderà nelle opere successive da lui realizzate. Eraserhead racchiude un universo, l’universo mentale del regista. Senza volerlo, questo film rappresenta una sorta di «cosmicità dell’arte» di dottrina crociana: «ogni schietta rappresentazione artistica è in se stessa l’universo, l’universo in quella forma individuale, quella forma individuale come l’universo. In ogni accento di poeta, in ogni creatura della sua fantasia, c’è tutto l’umano destino, tutte le speranze, tutte le illusioni, i dolori, le gioie, le grandezze e le miserie umane; il dramma intero del reale, che diviene cresce in perpetuo su se stesso, soffrendo e gioiendo» [2]. Certamente Eco, citando questo passo di Croce, non aveva in mente Lynch, idem Croce stesso non poteva riferirsi all’opera del regista, ma Eraserhead è un universo molto vicino a questa definizione. E tutti i suoi successivi importanti lavori, The Elephant Man, Dune, Velluto blu, Cuore selvaggio, Twin Peaks, Fuoco cammina con me, Strade perdute, Una storia vera, Mulholland drive (il suo capolavoro), il criptico Inland Empire, racchiudono ciò che già egli aveva mostrato con il suo primo lungometraggio: Eraserhead è il principio di un albero, dal quale si diramano tutti i suoi successivi lavori. Un mondo cinematografico fatto di tempi indefinibili, collocazioni cronologiche inafferrabili (come non ricordare la Loggia Nera, la realtà sovrannaturale presente nei boschi di Twin Peaks?), sfumate lotte tra bene e male, presenza di gioia e di dolore, una ricerca visiva e formale fuori dal comune. L’opera di Lynch è oggetto sia di critiche feroci che di elogi: chi lo accusa di essere incomprensibile, chi ne apprezza l’ambiguità. Un’ambiguità che fa rima con libertà. Per lui, non esiste un’interpretazione univoca dei propri lavori: ognuno ha la propria idea, ognuno ci vede ciò che può; il contenuto ambiguo delle sue realizzazioni arricchisce la foresta di interpretazioni possibili. Restio a dare spiegazioni, a parlare del senso dei suoi lavori, Lynch lascia agli altri una libertà assoluta di critica. Per questo, un soggetto simile non può non essere apprezzato: spiazza il pubblico che cerca un senso univoco, e scompagina la critica sempre intenta ad avere la meglio con le proprie teorie. Per esempio, Velluto blu, opera spartiacque della sua produzione, «[…] è argomento di mille tesi di laurea. In molti hanno tentato di ridurlo a un repertorio di simboli freudiani, ma è troppo ricco di elementi complessi e stratificati per farne un riassunto preciso e ordinato» [3]. Le riduzioni lasciamole a chi non sa creare e sa solo commentare, egli «[…] preferisce agire all’interno di un varco misterioso che separa la realtà quotidiana dal regno fantastico dell’immaginazione e del desiderio umano, ed è sempre alla ricerca di cose che sfidano ogni spiegazione o comprensione. Vuole che i suoi film siano sentiti e vissuti piuttosto che capiti» [4]. Questo pensiero racchiude, in poche parole, uno dei fulcri della poetica di Lynch e del suo modo di agire. Sensazioni e non spiegazioni, ed idee nuove che si mescolano con il passato. Della serie Twin Peaks, ricordiamo tutti la scena in cui la violentata Ronette Pulaski cammina lungo la ferrovia: una ragazza sbattuta, bella ma sconvolta, mentalmente traumatizzata ed assente. Questa sequenza ricorda un episodio vissuto dal giovanissimo Lynch: «[…] eravamo in fondo a questa via, di sera, quand’ecco dal buio – fu davvero impressionante – sbuca una donna nuda, dalla pelle candida. Forse sarà stato per la luce o per il modo in cui spuntò dall’oscurità, ma la sua pelle sembrava del colore del latte, e perdeva sangue dalla bocca. Camminava a fatica, stava male, ed era completamente nuda. Mai visto niente di simile: veniva verso di noi, ma sembrava che non si rendesse neppure conto della nostra presenza. […] Volevo aiutarla, ma ero piccolo e non sapevo come» [5]. Il giovane David non poté aiutare quella donna del bosco, salvò quindi il personaggio di Ronette nella serie Tv. Ed il passato della vita dell’autore fa capolino, sempre a Twin Peaks, con l’episodio dei famosi “sacchi che ridono” (i sacchi utilizzati per coprire e trasportare i cadaveri) che l’agente Cooper vede all’ospedale. L’idea di questi “sacchi” viene da un altro episodio vissuto da Lynch in gioventù: “Un giorno, mentre andavo a pranzo al White Tower, vidi «sorridere» i sacchi dell’obitorio. Da quel vicolo, infatti, si vedeva il retro dell’edificio e c’erano i sacchi di gomma usati per i cadaveri stesi ad asciugare. Gocciolavano acqua e fluidi organici, erano appesi al filo con le mollette e s’incurvavano un po’. Sembravano grandi sorrisi, il sorriso dei sacchi della morte» [6]. E molti altri sarebbero gli esempi di come il passato ritorni frequentemente nell’opera di David Lynch: quanto detto sopra, «Even if they’re new ideas, past colours them», vale pienamente.

Lynch ha vinto due volte il Premio César per il “Miglior film straniero”, è stato premiato nel 1990 con la Palma d’oro come “Miglior film” per Cuore selvaggio e nel 2001, sempre a Cannes, “Miglior regia” per Mulholland Drive. Nel 2006 ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera. È stato nominato tre volte per l’Oscar al miglior regista, per The Elephant Man, Velluto blu e Mulholland Drive, senza mai vincerlo. Non ha mai ottenuto il premio più ambito degli States, l’Oscar, nemmeno con il capolavoro Mulholland Drive: una Hollywood dove ciò che sembra non è, dove ciò che non è detto è più potente di ciò che viene descritto. Una storia lunga e, al tempo stesso, ritmata, dall’apparente soggetto semplice, trasformata in un capolavoro grazie alla geniale costruzione adottata. L’Oscar alla carriera non è il premio di cui Lynch ha bisogno, il suo talento è globalmente noto, ma è soltanto il giusto riconoscimento di una lunga ricerca incentrata sulla sperimentazione: un tortuoso percorso che non si è mai fermato davanti alle innumerevoli difficoltà di cinquant’anni di produzione cinematografica, una vita dedicata a quel «medium magico» [7] che è il cinema.

Silvio Gobbi

Note

[1] David Lynch (a cura di Chris Rodley), Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita, Milano, Il Saggiatore, 2016, p. 34.

[2] Benedetto Croce, Breviario di estetica, citato in Umberto Eco, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale, Milano, Bompiani, 2015 (I° ed. 1968), p. 109.

[3] David Lynch e Kristine McKenna, Lo spazio dei sogni, Milano, Mondadori, 2018, p. 201.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 27.

[6] Ivi, p. 81.

[7] David Lynch, Io vedo me stesso, cit., p. 365.

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