Jacek (Mateusz Kosciukiewicz) è un giovane muratore, ama l’heavy metal e la sua ragazza, la bella Dagmara (Malgorzata Gorol). Vive in una piccola comunità polacca, cattolica e fortemente tradizionalista, ed il suo carattere esuberante non è benvisto dalle persone (familiari compresi, tranne la sorella che lo adora). Il ragazzo lavora alla costruzione della statua di Cristo Re più alta della terra (realmente esistente a Świebodzin): «…più alto di quello di Rio!», come tuona fieramente il prete locale. Tutto sembra andare bene per Jacek, ma un giorno ha un incidente sul lavoro, talmente grave da richiedere un trapianto di faccia. Da lì in poi la sua vita cambierà: la ragazza non vorrà più vederlo, la madre non lo amerà più (tanto da crederlo posseduto dal demonio), tutti lo scanseranno con occhio sospettoso; ora non è più Jacek l’eccentrico, ma Jacek la bestia deformata. Solo la sorella gli sarà vicino: la gente diventerà sempre più ostile, incapace di vedere che dietro quella nuova faccia c’è sempre lo stesso ragazzo di prima.
Una città tanto piccola quanto ottusa e spietata, questa è rappresentata in Un’altra vita – Mug (Twarz) di Małgorzata Szumowska, “Orso d’argento – Gran premio della giuria” al Festival di Berlino 2018. La regista polacca mette su pellicola gli ormai noti difetti di certe piccole comunità: ipocrisia, superstizione, bigottismo e molto altro. La superstiziosa madre del ragazzo, il prete del paese furbo e un po’ porco, il cognato di Jacek che fa battute razziste su musulmani, neri e rom, sono i tipici membri che compongono il circo di certe realtà. La radicata fede cattolica di questo paesino è una facciata per coprire la meschinità di fondo: ipocriti buoni a parole, ma pronti a tirarsi indietro nel momento in cui dovrebbero dimostrare il loro spirito cristiano. E Jacek ne fa le spese, venendo sempre più emarginato da questi personaggi “brutti, sporchi e cattivi” in chiave mitteleuropea. La forza della regia sta nella narrazione veloce, ma non superficiale: la rappresentazione di questa mesta comunità non cede al dramma eccessivo, altalenando tra ironia e serietà, scivolando da un registro ad un altro con leggerezza e senza stonature. Si assorbe il male senza sentirne la pesantezza, Małgorzata Szumowska dimostra autentica maestria nel raccontare. L’utilizzo della particolare messa a fuoco, stretta sui soggetti principali per rendere sfuocato il contorno della scena, rende ancor più l’idea dell’ottusità di questa gente, della solitudine di Jacek, costretto a vivere in una realtà dove ognuno guarda ai propri interessi e offusca tutto ciò che c’è intorno, proprio come il fuoco utilizzato dalla regista: la tecnica corrobora pregevolmente il contenuto della vicenda. Con personaggi che ricordano i già citati Brutti, sporchi e cattivi di Scola, mescolati ai cinici e malvagi di Dogville di von Trier (in chiave molto meno esasperata), ed una tecnica cinematografica che fa tornare in mente Lo scafandro e la farfalla di Julian Schnabel, Szumowska realizza un film autoriale, degno di nota, dove stili differenti, trama e tecnica si completano a vicenda. Una regista incapace di accettare tacitamente le bassezze del proprio paese, desiderosa di guardare da un’altra parte, come il Cristo Re del film, rivolto con lo sguardo altrove, non verso chi lo ha eretto.
Silvio Gobbi