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Una vita spericolata
Una vita spericolata

“Una vita spericolata”: tra il road movie e la commedia all’italiana

Pubblicato da Redazione in Cultura 1,506 Visite

«La banca non dà soldi a chi non ne ha». Questa frase, oltre a farci tornare in mente il famoso episodio dove Roberto Benigni chiede un prestito alla banca in Tu mi turbi (1983), segna l’inizio dei guai del nostro protagonista, il giovane Rossi (Lorenzo Richelmy), un ragazzo in debito che non riesce a portare avanti la propria officina. Dopo che l’impiegato della banca abbia pronunciato tale frase, una pistola (scarica) cade dalla tasca del giovanotto e tutti credono che fosse lì per una rapina. I presenti, spaventati ed invasati, “costringono” praticamente Rossi a prendere tutto il denaro, ma alcuni di questi soldi sono di una pericolosa banda criminale, la quale si mette alla ricerca del nostro ladro per caso e del suo altrettanto casuale complice, il suo migliore amico BB (Eugenio Franceschini), anche lui spiantato, proprietario di un bar in crisi. Ai ragazzi si aggiunge Soledad (Matilda De Angelis), un’attrice finita nel dimenticatoio che si fa rapire dai due squinternati amici per poter far riaffiorare la propria celebrità. I tre si ritrovano così in una rocambolesca fuga lungo tutta l’Italia, dal Piemonte alla Puglia, con alle calcagna polizia e delinquenti. Il film Una vita spericolata, di Marco Ponti, è una commedia leggera, ma non sciocca, con un buon ritmo. I personaggi, pur non essendo del tutto originali, sono ben delineati e scritti discretamente bene. La commedia si basa sul dramma di molti italiani (giovani e non) alle prese con la crisi economica, con la mancanza di lavoro e lo scemare delle proprie aspettative dalla vita. Rossi, BB e Soledad sono i dimenticati, quelli che il mondo cresce e nutre con grandi aspettative per poi non essere soddisfatte. Una vita spericolata è un road movie nostrano, che cerca di riprendere il modello statunitense del genere, ma con un’impronta italiana difficilmente (o fortunatamente?) non cancellabile. Ponti riesce nell’intento di creare una commedia gradevole, non volgare, con qualche cliché nei personaggi, ma al tempo stesso con delle sorprese narrative interessanti: lo spostamento dei personaggi è senza sosta, ed i loro caratteri affiorano, pian piano, lungo lo svolgimento. Il prodotto è gradevole per passare una serata in tranquillità, tra simpatia sincera e qualche risata amara. La regia, a livello tecnico, è molto sobria, scorrevole: inquadrature, scene, montaggio e suono hanno una funzione totalmente narrativa, senza alcun ardimento particolare. Non emerge uno stile caratteristico da parte dell’autore, visivamente parlando. Comunque, egli è riuscito lo stesso a dirigere il lavoro in maniera corretta, senza pecche. Ponti cerca di riprendere una delle caratteristiche peculiari della commedia all’italiana: il saper costruire vicende ironiche e comiche in situazioni e ambienti fondamentalmente amari. Ridere dei nostri problemi, questo è ciò che ha caratterizzato una grande parte del nostro cinema. E qui il regista tenta di far sua questa particolarità della nostra commedia all’italiana, prendendo il dramma dei precari e dei disoccupati e di trarne una storia che faccia ridere pur nella sua amarezza di base. Ridere di un dramma, un “J’accuse” comico e rocambolesco contro le iniquità dei nostri giorni (non a caso, nel film appare Bernie Sanders, politico del partito democratico statunitense molto vicino all’area socialista). Saper ridere dei nostri problemi, trovare la situazione comica anche nel momento più buio: ridere, questo ci riesce ancora bene, fortunatamente.

Silvio Gobbi

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recensione cinematografica 2018-06-22
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