Cinquant’anni fa, per l’esattezza il 26 giugno del 1967, si spegneva uno dei più grandi figli che San Severino abbia dato alla luce nell’era contemporanea: Francesco Antolisei. Nacque nella nostra città il 6 dicembre del 1882. Ora, attraverso un’intervista… impossibile cerchiamo di capire chi era e cosa ha fatto di importante per celebrarlo a 50 anni dalla morte.
Professore, allora come ci si sente ad essere il padre del diritto penale italiano e ad aver influenzato con la sua opera il diritto penale di molte altre nazioni?
“Effettivamente è un motivo di orgoglio, ma le mie origini modeste mi hanno sempre fatto stare con i piedi per terra. Non dimentichi che ho studiato e mi sono laureato a Roma grazie a una borsa di studio del Pio Sodalizio dei Piceni e che prima di diventare professore ho lavorato come impiegato e avvocato. Certo, la mia passione è sempre stato il diritto penale, le sue implicazioni filosofiche e la costruzione di una teoria del comportamento umano riferita alla sfera giuridica. Proprio per questo amore della materia ho sempre collaborato con riviste scientifiche di rilievo, come la Rivista penale e la Rivista di diritto e procedura penale, ove ho potuto sviluppare le mie teorie. Fui pure condirettore della rivista Giurisprudenza Italiana e diressi anche la Rivista Italiana di diritto e procedura penale. Queste riviste sono state il momento formativo di molti studiosi, giuristi e magistrati ai quali, mi piace pensare, ho fornito nel primo e secondo dopoguerra, una nuova visione del diritto penale”.
Quindi la sua carriera universitaria non è iniziata subito dopo la laurea magari con i professori con i quali aveva studiato all’università…
“No, sono diventato professore conseguendo la libera docenza solo nel 1927, nel frattempo da Roma mi ero trasferito a Milano dove ero divenuto direttore dell’ufficio legale della Banca Bergamasca. Oggi i giovani vogliono tutto e subito adagiandosi, magari, su quello che sono riusciti a fare. Io invece a 45 anni divenni professore universitario benché avessi già un lavoro appagante. Senza pensare che la mia prima cattedra fu all’Università di Sassari nell’anno accademico 1931/32 e vi rimasi sino al 1934, anno in cui andai ad insegnare all’Università di Parma. A Sassari ebbi anche l’onore di insegnare nella facoltà di Giurisprudenza con il futuro Presidente della Repubblica Antonio Segni. Quindi andai ad insegnare a Genova nel 1938 e dal 1940 definitivamente mi stabilii all’Università di Torino.
Pensi che nel 1931 non c’erano i voli low cost tra la Sardegna e il continente e quindi il trasferimento non fu certo una passeggiata, per dirla alla settempedana… Facendo un paragone con i giorni d’oggi sono stato anche io un “cervello in fuga”.
Ritiene che il suo insegnamento oggi sia ancora valido o, con i tempi che corrono e le complicazioni della cosiddetta vita moderna, ci sia ancora qualcosa da scoprire?
“Beh, effettivamente l’evoluzione sociale che si è avuta nel terzo millennio qualche aggiustamento delle mie teorie potrebbe comportarlo.
Ma siccome il comportamento umano (cosciente e volontario) che infrange la legge penale e che provoca un evento dannoso (o che mette anche soltanto in pericolo un bene della vita) sono concetti universali sempre validi, possiamo dire che gran parte del lavoro è stato fatto.
La vita moderna ha creato nuove situazioni che possono generare fatti da sanzionare penalmente, basti pensare a internet, ma la valutazione del fatto umano all’interno della fattispecie criminosa è un concetto generale che andrà poi modellato sul fatto storico. Con la pubblicazione del mio Manuale di Diritto penale, avvenuta nel 1947, segnai la nuova strada che credevo fosse quella più consona per studiare il comportamento umano sotto la luce della responsabilità penale. I fatti mi hanno dato ragione, dato che ancora oggi il manuale viene pubblicato con gli aggiornamenti curati da illustri miei allievi. Ho anche saputo che su Amazon il manuale viene venduto ancora molto…”.
Quindi generazioni di giuristi devono ringraziarla?!
“Oddio, non so se qualche studente che ha passato nottate a studiare la concezione dualistica del reato mi abbia ringraziato o mi abbia indirizzato pensieri non sempre gentili. Posso soltanto dire che sin da subito le mie teorie vennero fatte proprie dalla Cassazione e dalla giurisprudenza in generale, oltre che dalla dottrina, ritenendole esaustive e aderenti alla realtà fattuale. Ma non mi faccia entrare nel dettaglio tecnico, altrimenti il lettore si annoia. Lo sa che uno dei meriti che mi sono sempre stati riconosciuti, e al quale forse devo il successo del Manuale, è che i concetti non sempre facilmente intellegibili, erano spiegati in maniera chiara e semplice? Forse è per questo che il Manuale è stato tradotto in molte lingue.
Inoltre esistono numerosi studi in mio onore e ancora oggi molte università adottano miei libri e monografie per materie d’esame. Non me ne vogliano gli studenti…”.
Professore, ci dica, le sue origini settempedane hanno in qualche maniera influito sul suo modo di pensare?
“Sicuramente sì. Io sono sempre stato orgoglioso delle mie origini. Mio padre Giulio, maestro di musica, e mia madre Maria Scuriatti sono sempre stati orgogliosi di me, secondo di sette fratelli. Non dimentichi che ho avuto anche lo studio legale a San Severino in un prestigioso palazzo in Piazza del Popolo dove, mi si dice, adesso vi sia una SPA. Mi hanno spiegato che non è una società per azioni ma un centro benessere…
Quindi la mia “settempedanità” è sempre stata nel mio cuore e forse mi ha dato quella testardaggine (comunemente detta tigna) che non mi ha fatto mai abbandonare la mia strada maestra, ovvero quella di diventare uno studioso del diritto penale. Sicuramente non tutti a San Severino sanno di preciso chi sono, tranne chi fa l’avvocato o ha studiato giurisprudenza. Comunque, il fatto che la ricca e preziosa biblioteca comunale sia intitolata al sottoscritto un po’ mi ha fatto pubblicità, come si usa dire oggigiorno, e di questo sono profondamente orgoglioso. Invece, e lo dico senza vena polemica, avrei qualcosa da ridire sulla via che mi è stata dedicata…
Perché?
“È una via di accesso secondaria alla periferia della città… E non tutti sanno dov’è! Ma bisogna anche accontentarsi. Alla fine posso anche fregiarmi del fatto che ho lasciato un segno sulla toponomastica. Anche a Roma ho una via a me intitolata ed è vicino all’Università di Tor Vergata. Si vede che era destino”.
Per concludere, professore, come vorrebbe che la ricordassero i suoi concittadini e non solo?
“Vorrei essere ricordato semplicemente per il lavoro altamente scientifico che ho svolto, per il contributo positivo che ho dato a una materia complessa (e oggi altamente bistrattata dal legislatore che si affida più alla “pancia” che al raziocinio nell’emanare leggi) per renderla comprensibile e meno complicata, in quanto, non dimentichiamolo mai, tratta un bene fondamentale della vita dell’uomo valido in ogni luogo e in ogni tempo: la libertà”.