L’arrivo di un nuovo parroco a San Lorenzo in Doliolo segna la ripresa di una festa secolare della nostra città, la festa di sant’Antonio Abate, eremita egiziano, considerato tra i padri del monachesimo, protettore degli animali domestici e invocato contro l’Herpes Zoster, detto per questo anche “Fuoco di Sant’Antonio”.

Una recente immagine devozionale di Sant’Antonio abate, attorniato dagli animali domestici, dall’immancabile porcellino e dal fuoco che simboleggia l’Herpes Zoster
La ricorrenza è fissata nel calendario canonico il 17 gennaio, ma nella nostra città, vista la concomitanza con i fatti miracolosi della Madonna dei Lumi, si celebrava nella chiesa di Cesalonga nella «domenica infraottava», ovvero quella successiva alla ricorrenza. Ciò favoriva il grandissimo concorso di fedeli, considerati il problema della diffusione del virus della varicella, responsabile dell’herpes e, soprattutto, il fatto che il santo era il protettore del principale capitale posseduto dalla famiglia contadina, ovvero gli animali da cortile, con in primis il maiale, a cui era legato l’approvvigionamento proteico della maggior parte delle famiglie per un anno.
Seppure la chiesa sia molto amata dai settempedani, questa è stata anche una delle meno studiate della città, anche perché, essendo in origine pertinenza dell’abbazia benedettina di San Lorenzo in Doliolo, non è stata regolarmente oggetto di visite pastorali dell’ordinario diocesano, i cui verbali sono una delle fonti più ricche di informazioni per gli storici dell’arte e dell’architettura. Ho tratto questo scritto sintetizzando, per l’occasione della riapertura della chiesa, un mio studio presentato negli atti del Convegno di Studi storici maceratesi del 2021. Nello stesso anno l’edificio e stato oggetto della campagna “Salvalarte” a cura del Circolo “il Grillo” di Legambiente, con lo scopo di sottolinearne il valore storico-artistico e l’urgenza di metterne in salvo l’apparato pittorico.
La chiesa, come sottolinea Vittorio Emanuele Aleandri nella sua guida di Sanseverino, prende il nome dall’antica borgata di Cesalonga, che sarebbe stata distrutta nel 1354 da Fra Morriale, capitano di ventura al soldo del cardinale Egidio Albornoz. Lo storico settempedano Girolamo Talpa indica la costruzione (è probabile si sia trattato di una ristrutturazione o di ricostruzione) dell’edificio attuale nel 1427, sotto il pontificato di Papa Martino V, epoca compatibile con il carattere architettonico della fabbrica, opera da assegnare probabilmente a quei mastri muratori lombardi attivi in città. Solo nel secolo XIX i primi storici locali hanno rivolto l’attenzione a questo edificio sacro, affidato alla gestione di una confraternita; la maggior mole di dati storici oggi disponibili li dobbiamo alla preziosa opera dell’infaticabile conte Severino Servanzi-Collio che intorno al 1834, ne dette una descrizione sommaria corredata da dati storici desunti dalle visite pastorali e da altri documenti.
Per quanto concerne nello specifico la nostra chiesa, egli condensò in due pagine di appunti manoscritti una ricca mole di informazioni ad oggi rimaste inedite, che costituiscono la fonte iniziale di notizie per questo mio lavoro. Inoltre, nel proprio archivio, egli ha provvidenzialmente conservato parte della documentazione contabile relativa alle feste che vi si sono tenute nel secolo XIX, salvandola da sicura dispersione. Proprio dagli appunti del Servanzi Collio abbiamo avuto l’unica notizia storica dell’esteso palinsesto di affreschi che sono sotto agli scialbi successivi. Tra quelli di cui oggi abbiamo tracce visibili ci sono principalmente opere devozionali, ovvero ex voto; in uno, di grandi proporzioni e di fattura pregevole, ho in particolare ritenuto di riconoscere la mano del settempedano Lorenzo D’Alessandro.
Scrive l’erudito patrizio settempedano che la chiesa aveva il titolo di Abbazia e veniva data in commenda a un presbitero di nomina vescovile: al tempo della visita pastorale del vescovo Francesco Maria Forlani tenuta nel 1759 – dalla quale il conte Servanzi Collio ha tratto gran parte delle notizie – il titolo di Abate spettava all’arciprete canonico della cattedrale Antonio Maria Margarucci. La chiesa aveva esigue entrate economiche derivanti dal possesso di un piccolo terreno attiguo e doveva la sua manutenzione alle offerte che le derivavano dal privilegio, riconosciuto canonicamente, di benedire gli animali da corte nel giorno della festa del santo. Con questo introito si manteneva anche la casa annessa che il Servanzi Collio annota essere stata in passato abitata da un eremita, che viveva di elemosina e officiava la chiesa. In questa aveva poi sede un’antica confraternita sotto il titolo di Sant’Antonio di Cesalonga, i cui sodali non erano contraddistinti da alcuna veste o insegna ed erano dispensati dal partecipare alle processioni pubbliche. La congrega aveva però l’onere di contribuire al mantenimento di sette balie per i bambini abbandonati, corrispondendo loro quindici baiocchi al mese. Inoltre doveva organizzare la festa di Sant’Antonio Abate e aveva l’onere di provvedere alla distribuzione in elemosina del pane benedetto nel giorno della festa. Per tali scopi la confraternita individuava annualmente due “Deputati”, che coordinavano tutte le operazioni preliminari. Alcune di queste notizie sono confermate nel verbale della visita pastorale tenuta nel 1817 dal vescovo Giacomo Ranghiasci Brancaleoni del 1817; in questa occasione, essendo da tempo scomparso l’abate titolare Antonio Maria Margarucci, l’Ordinario diocesano provvide a nominare suo successore don Vincenzo Carassai, investendolo anche del compito di riportare a uno stato di decoro la chiesa e la casa adiacente. Tra le disposizioni c’erano anche quelle di dotare la chiesa di una nuova campana e di convenienti arredi sacri per celebrare dignitosamente la messa e quella di chiudere il collegamento diretto che c’era tra il presbiterio e l’abitazione. Il vescovo proibì infine di officiare la chiesa, fintanto che tali lavori non fossero stati eseguiti e dallo stesso effettivamente verificati. Pur essendo stata sciolta la confraternita – che il Ranghiasci Brancaleoni, tra l’altro, propone al nuovo Abate di ricostituire perché la chiesa sia custodita con maggior decoro – la festa del 17 gennaio, che si teneva, come già detto, nella domenica infraottava si era continuata ad organizzare con il benestare del vescovo.
Nella chiesa operava un gruppo di fedeli, già membri della disciolta confratenita, che con la raccolta di elemosine perpetuava questa antica tradizione. La documentazione presente nell’archivio Servanzi Collio consta di bilanci dell’organizzazione per gli anni compresi tra il 1803 e il 1856. Da questi resoconti possiamo dedurre il rilievo di questo appuntamento: innanzitutto si celebravano numerose messe il numero delle quali variava a seconda dell’entità delle offerte raccolte. In occasione della festa venivano distribuiti il pane in elemosina ai poveri e delle immagini sacre del santo, stampate per l’occasione e che finivano per essere appese in ogni stalla del contado. Troviamo nei consuntivi spese relative ad organizzare il pranzo o rinfresco per il vescovo, per la musica di trombe e tamburi e per l’«apparatura» della chiesa. Inoltre si procedeva all’acquisto di cera per le candele, vino, ostie, incenso, e vi erano oneri per i cavalli, per la macinatura del grano e per la «tassa solita» dovuta all’Abate.
Quest’anno, dopo un interruzione di cinque anni per la malattia e la morte dell’indimenticato don Edoardo Ricevuti, la festa si celebra nuovamente, riprendendo la secolare tradizione. Grazie padre Luciano!
Luca Maria Cristini
Si ringrazia Fiorino Luciani per le foto riferite alla festa e per il fronte della chiesa