È da poco terminato il Festival di Cannes 2021, con la vittoria di Titane, diretto da Julia Ducournau: non appena il film uscirà nelle sale, ne scriveremo. Per ora, parliamo del lungometraggio che dieci anni fa trionfò a Cannes: The Tree of Life, l’unico lavoro di Terrence Malick a ricevere la Palma d’oro. Un’opera complessa che richiede particolare attenzione per entrare, pienamente, nella sua costruzione. La critica ed il pubblico si sono spaccati nel giudizio: chi lo ha definito un capolavoro, chi un’operetta pretenziosa e scarsa. Cerchiamo di gettare un po’ di luce su di essa, per cogliere il suo significato.
Il protagonista di The Tree of Life è Jack. Il ragazzino vive con i fratelli minori, la madre buona ed il padre severo, intento a far diventare i propri figli degli uomini forti ed affermati (cosa che lui non è). Il rapporto con i ragazzi è difficile e, anche da adulto, Jack non è riappacificato con il padre. A prima vista, una trama nota. Ma andiamo oltre questa apparenza, perché la pellicola è così densa di dettagli e riferimenti tali da amplificarne il contenuto. L’opera inizia con un passo tratto dalla Bibbia, da Giobbe: «Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della Terra? Mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?». Già da questa citazione, captiamo che il conflitto alla base della storia è profondo: l’incolmabile distanza tra il padre ed il figlio è una questione ontologica, come quella tra umano e trascendente. Successivamente, il regista ci propina una serie di frammenti per farci conoscere i protagonisti e, dopodiché, inizia una grande sequenza cosmica: la creazione dell’Universo, i pianeti, le stelle e gli animali (la nascita della vita). Infine, ci immergiamo nella parte più “narrativa” del lungometraggio, quella che riguarda Jack.
Proprio nella mente di Jack, nelle turbe che lo accompagnano dall’infanzia all’età adulta, si colloca il centro dell’opera. Egli è un essere in costante conflitto tra i due poli nei quali si è formato, il padre e la madre, la forza e la dolcezza, la sfida e la culla: «La via della natura, la via della grazia». Il regista cita Tommaso d’Aquino per rappresentare lo sdoppiamento, quella sorta di intima “schismogenesi” presente nell’anima del protagonista, una frattura che si protrae lungo tutto la sua vita, anche dopo la morte di uno dei suoi fratellini. E cresce con i dubbi, con le domande, con l’amore mancato che si porta dietro come un peso. Un uomo deve seguire la natura, quindi la soddisfazione e l’istinto, o la via della grazia e l’amore che può derivarne? Questo è il conflitto interiore che accompagna Jack: essere più come suo padre o come sua madre? Propendere verso l’amabilità o la rudezza? Coltivare quella grazia che presuppone la natura e la migliora, o restare al primo stadio? Questo difficile equilibrio, che riguarda il ragazzo, è un interrogativo che coinvolge tutti noi, l’umanità intera.
The Tree of Life è ciò: una storia all’apparenza semplice, ma che, in realtà, trascina tutti gli spettatori verso una enorme apertura, incanalando il pubblico nelle domande della vita, nei suoi ineluttabili errori ed impensabili gioie. Coinvolge tutti noi, anche chi non ha nessuna esperienza biografica simile a quella dei protagonisti. Le incombenze di questa famiglia sono una allegoria dell’esistenza: i dubbi, i silenzi, la morte, le liti, i conflitti e le riappacificazioni. Tutto ciò che è nell’Universo è in loro, e loro sono l’Universo. L’uomo che cede alla natura si appaga superficialmente, sopravvive ma non vive. Qui è l’errore del padre, credere giusta la sua natura, assecondare l’istinto di competizione primordiale, la sopraffazione, senza curarsi dell’amore. Il lato filosofico e spirituale di Malick esplode pienamente in questo film, dove tutti i protagonisti vivono le loro vicende come una ricerca della pace e dell’assoluto, attraverso le tipiche tecniche amate dal regista, come le voci fuori campo, i grandangoli e la narrazione non lineare. Un lungometraggio che ha preparato il terreno a tre suoi successivi lavori, To the Wonder (2012), Knight of Cups (2015) e Song to Song (2017): sempre storie individuali di rapporti critici che vanno al di là della vicenda in sé e trattano la vita secondo un’ampia ottica esistenziale. The Tree of Life è un continuo interrogare l’esistenza tramite voci ed immagini, dove dolore e dubbi concorrono a condurre i propri protagonisti alla ricerca di una indefinibile eternità, un luogo non terreno, raggiungibile attraverso la via del perdono, dove potersi riappacificare col passato ed i propri errori.
Silvio Gobbi