Il giornalismo è frequentemente oggetto di critiche: accusato di imparzialità, erroneità nelle informazioni riportate e molte altre denunce. Molti di questi appunti sono, spesso, veri, ma qualcosa di buono, nel tempo, è stato fatto. Perciò, parliamo di cinque film capaci di ricordarci che c’è stato, e può esserci, un giornalismo utile alla vera informazione, capace di indagare pazientemente e riportare alla luce delle scottanti verità.
Nel 1971, il “Washington Post” svelò al pubblico i Pentagon Papers (ma per primo cominciò il “New York Times”), documenti che racchiudevano informazioni segrete sulla guerra in Vietnam: un conflitto voluto per l’ipertrofico volere di supremazia militare, mascherato da ideali di libertà. Si scatenò il putiferio: il giornale venne denunciato dal governo, con l’accusa di aver danneggiato lo Stato diffondendo quelle carte. Ma la Corte Suprema scagionò la testata da ogni accusa, dichiarando che «la Stampa non deve servire chi governa, ma chi è governato». Quei giornalisti hanno semplicemente fatto il loro lavoro: informare l’opinione pubblica, divulgando, foglio per foglio, quelle maledette carte. The Post, di Steven Spielberg (2017), narra questa vicenda: un film sulla libertà di stampa, quella autentica, un’opera che non cede troppo all’enfasi, raccontando un evento, una scoperta, che ha cambiato la storia della politica statunitense. A questo deve servire la stampa, a tirare fuori l’impensabile verità, soprattutto quella scomoda. Come non ricordare, quindi, il grande scandalo di pedofilia clericale nella città di Boston, venuto a galla fragorosamente nei primi anni Duemila? Quando il “Boston Globe” indagò sugli abusi commessi, nei decenni, dai preti sui minorenni. Tom McCarthy, con Spotlight (2015), racconta questa scomoda inchiesta: una bella fatica indagare sugli abusi del clero cattolico per chi è cresciuto in quell’ambiente, ma il grande dispiacere non ha frenato l’opera dei giornalisti. Senza fronzoli né retorica alcuna, senza cedere al patetismo, il regista ci mostra l’infinita quantità di marcio tirata fuori da questa squadra di giornalisti, infastidendo il vescovo e l’intera comunità: perché tutti sapevano, ma nessuno voleva ammettere l’esistenza di certi crimini. Girarsi dall’altra parte è una prassi diffusa, anche noi italiani ne sappiamo qualcosa. Parliamo di Fortapàsc, di Marco Risi (2009). Film incentrato sulla vita di Giancarlo Siani, giovane giornalista de “Il Mattino” ucciso, a soli ventisei anni, nel 1985, dalla camorra. Sveglio, idealista, fortemente convinto dell’importanza dell’informazione. Ha indagato sulle infiltrazioni camorristiche a Torre Annunziata, tra appalti e ricostruzioni: non si è girato dall’altra parte, troppo ha rovistato, e lo hanno fatto fuori. Marco Risi, con una regia pulita e chiara, capace di viaggiare tra cronaca e racconto, sa trattare bene questa vicenda, ricordandoci quanto ancora sia lungo il cammino per trasformare certe realtà: chissà quante indagini (e non solo) serviranno prima di un vero mutamento.
Il giornalismo deve raccontare non solo gli orrori del proprio Paese, ma anche quelli del mondo intero. Come ha fatto Marie Colvin, giornalista di guerra deceduta in Siria nel 2012, in un bombardamento. La pellicola A Private War (Matthew Heineman, 2018) narra la sua storia: una vita difficile, sempre in mezzo alle pallottole, alla morte, alla miseria, in giro per il mondo. Ha perso un occhio nello Sri Lanka, ha intervistato Gheddafi e molto altro: i suoi reportage per “The Sunday Times” hanno mostrato molti degli abomini del globo. Lo stesso dinamismo possiamo riscontrare in Richard Boyle, reporter protagonista di Salvador, di Oliver Stone (1986). Un film concreto e fitto: nel 1980 Boyle, partito con cinismo verso il Salvador, si fa coinvolgere sempre di più nella guerra civile in corso, scoprendo quanto gli Stati Uniti abbiano contribuito a generare quel caos. Un lungometraggio dove l’interesse dello spettatore cresce minuto per minuto, in parallelo con la presa di coscienza del protagonista: Stone sa sempre come realizzare un film, e qui riesce a non offuscare la storia, il contenuto, con trovate visive ridondanti. Questo aspetto è comune a tutti i registi qui citati: frenano la spettacolarità visiva, la voglia di mettere in mostra la propria bravura tecnica per lasciare spazio ai fatti narrati, andando dritti al punto (come in una buona inchiesta). Max Weber ha scritto che la vita giornalistica non si addice «[…] ai caratteri deboli, e in particolare a coloro che possono trovare il loro equilibrio interiore solo in una situazione stabile e sicura. […] La vita del giornalista è invece sotto ogni aspetto abbandonata al mero caso, e in circostanze nelle quali la sicurezza interiore è messa a una prova ben più dura che in qualunque altra situazione» (“Il lavoro intellettuale come professione”).
Un giudizio che rispecchia le storie qua sopra citate, degli esempi di un mestiere che, al di là delle critiche che riceve e dei passi falsi che commette, può ancora fare e dare molto.
Silvio Gobbi