Nella Napoli degli anni Ottanta, vivono Aldo, sua moglie Vanda, i figli Anna e Sandro. Un nucleo familiare presto sconvolto da un’inaspettata sorpresa: Aldo, autore radiofonico, si è innamorato di Lidia, una sua collega di Roma. Detta la verità a Vanda, la famiglia entra in crisi: da lì, si susseguono anni di tira e molla tra i due coniugi. Aldo torna a Napoli varie volte per rivedere i figli, ma è annoiato, fa il padre tanto per farlo, senza avere il coraggio di mollare Vanda per stare definitivamente con Lidia. Vanda, da parte sua, ha un carattere difficile, pesante, paranoide, emotivamente debole. In mezzo a questi due caratteri complicati, ci sono Anna e Sandro, piccoli, costretti a vivere tra due genitori fondamentalmente buoni, ma confusi nei pensieri e negli atteggiamenti. Un caos che albergherà nel cuore dei due figli fino all’età adulta.
Lacci è il nuovo film di Daniele Luchetti, opera di apertura alla 77esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, presentato fuori concorso: ha come soggetto l’omonimo libro di Domenico Starnone (collaboratore alla sceneggiatura, insieme a Luchetti stesso e a Francesco Piccolo). Un’idea non nuova: di storie, cinematografiche e non, incentrate sulla crisi di una coppia, ne abbiamo pieno il mondo. Ma Luchetti realizza un’opera capace di non far pesare più di tanto quella nota di “già visto” presente nella struttura. Grazie anche agli ottimi interpreti, egli rappresenta un dramma universale (può essere ambientato tanto a Napoli quanto in qualsiasi altra parte del mondo) capace di coinvolgere chiunque. La vita di questi due genitori che non volevano e non avrebbero dovuto essere tali, è ben narrata grazie ai continui salti in avanti ed indietro nel tempo: donano al film ritmo ed imprimono nello spettatore il senso di frammentarietà dei personaggi, il loro continuo pensare al passato, incapaci di andare avanti nella loro vita. Luchetti tratteggia delicatamente la storia di una famiglia disastrata, tenuta in vita soltanto dai “lacci” dell’abitudine, della routine, della mancanza di coraggio dei genitori di troncare il rapporto. Il tutto, dosando bene la tensione tra i protagonisti: il mutismo di lui, uomo debole, incapace di recidere i rapporti con la moglie, e l’agitazione di lei, raggiungono il giusto punto di equilibrio. Ci sono i momenti di distensione e gli schiamazzi, ma sono naturali e ben concatenati, non grottescamente e continuamente caricati come qualche altro autore avrebbe fatto. Una famiglia tenuta insieme dalla paura di lui di cambiare strada e dalla ossessività di lei, incapace di immaginarsi di cominciare, da sola, una nuova vita. Quattro personaggi che passano insieme quaranta anni di vita grazie alle forzature: il mutismo e la sordità tra i membri del nucleo familiare (ben rappresentata in certe scene), fanno sì che questi quattro disperati si trascinino insieme per tutto questo tempo. Una unità familiare pagata a caro prezzo, accumulando fraintendimenti, dolori, sentimenti spezzati: vere macerie su macerie, come il finale catartico, brillantemente, ci sottolinea.
Silvio Gobbi