La scultura Forme uniche della continuità dello spazio (Umberto Boccioni, 1913) rappresenta un corpo umano composto da curve tali da donare il senso del movimento: la forma dinamica della figura si scontra con la materia in sé, massiccia e rigida per sua natura. Il soggetto si muove e rimane fermo al tempo stesso: la velocità e la corsa verso il futuro sembrano già cedere a quel presente che, i futuristi, volevano abolire (insieme al passato). Forse una metafora dell’uomo? Del suo bisogno impellente di avanzare, sia mentalmente che fisicamente, senza mai riuscirci pienamente? Probabilmente, un anticipo dell’oggi: tanto smaniosi di raggiungere qualsiasi cosa senza rendersi conto di quanto, in realtà, si stia fermi. Come Sal Paradise di On the Road (Walter Salles, 2012): viaggia per fuggire e per conoscersi, per muoversi nello spazio e radicarsi in sé, ritrovandosi al punto di partenza. Nella sua vita sulla strada, Paradise/Kerouac, giovane scrittore, attraversa l’America buia, viscerale, dei derelitti: Dean Moriarty, Carlo Marx, Old Bull Lee, sono solo alcuni dei personaggi squinternati che incontra lungo il cammino. Un viaggio verso la fine che conferma il nulla dell’esistenza (la vita si consuma nell’atto dell’esperienza stessa). Non vi è altro per Kerouac, se non l’inquieta dimostrazione che la vita è «il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza». Un ineluttabile evento: una vera montagna insormontabile. Solo un visionario può cercare di affrontare le peggiori scalate, le più aspre montagne, come Fitzcarraldo (Werner Herzog, 1982): pazzo impresario, moderno Sisifo, intento ad attraversare i fiumi amazzonici e trasportare la propria nave al di là di una montagna. Follia, mito e leggenda: un imprenditore caparbio che vuole sfidare il buonsenso, la ragionevolezza e la natura. «Il conquistatore dell’inutile», così viene apostrofato: non conquista nulla di concreto, ma il suo infernale viaggio rappresenta una tanto tenace, quanto desertica e letale, forza di volontà. E quel deserto interiore di Fitzcarraldo è lo stesso dove si ritrova (fisicamente, in questo caso) Travis di Paris, Texas (Wim Wenders, 1984): un uomo smarrito che vaga tra gli USA ed il Messico. Dopo anni di solitaria peregrinazione, egli decide di ritrovare il figlio e di ricongiungerlo alla vera madre: rattoppa le vite dei suoi familiari per poi fuggire nuovamente, da solo. Quando si vive a lungo nel deserto, se ne diventa dipendenti. Anche Trevor/Sam di Fino alla fine del mondo (W. Wenders, 1991) si muove continuamente, tra città e deserti, per registrare, con un fantascientifico macchinario, le immagini del mondo: il pianeta Terra è quasi alla fine e Trevor è ancora alla ricerca della sua completa immagine (come tutti noi). Sforzo fisico, cimento mentale, sfida interiore dai contorni inafferrabili: ogni viaggio è un misto di ambizione, paura e stimoli. È un paradosso continuo tra la necessità di movimento e la voglia di stabilità, tra dinamismo e staticità. Cesare Pavese scrive che bisogna avere un paese nel quale tornare («che resta ad aspettarti»), per avere delle radici, una identità, ma non è così per Christopher McCandless di Into the Wild (Sean Penn, 2007): giovane che tenta di fuggire dalla sua storia, dalle sue radici, cercando di cancellare il suo passato tramite un viaggio verso la fredda e lontana Alaska. Un viaggio che fa comprendere a Christopher il senso della vita attraverso la morte. Non è il solo a terminare il proprio viaggio con la morte: lo stesso accade alla coppia protagonista di Ella & John (Paolo Virzì, 2017), anziani sposi che, dopo una vita di gioie e tradimenti, decidono di raggiungere serenamente la fine nel loro camper. Uomini e donne in cammino: Sal, Fitzcarraldo, Travis, Trevor/Sam, Christopher, Ella, John intrecciano vita e morte lungo i loro percorsi. Gli USA, la terra dove passato e futuro si incontrano (scrive François-René de Chateaubriand), il Sud America di Fitzcarraldo, la remota Australia di Trevor, la fredda Alaska di Christopher: tante terre che raccolgono il passato, il presente ed il futuro delle vite di questi personaggi. Immense lande che traducono le emozioni, le gioie e le angosce dei protagonisti in migliaia di miglia percorse. Insoddisfatti del loro “presente ipertrofico” (François Hartog), tanto ridondante quanto senza prospettive, tentano di svoltare la propria condizione attraverso imprevedibili viaggi, cercando di accalappiare e mutare a proprio piacimento il più grande degli incontrollabili misteri: la vita.
Silvio Gobbi