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La dolce vita
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I sessant’anni de “La dolce vita” di Federico Fellini

Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) è un giovane giornalista: vive tra gossip, feste, serate con modelle e attrici e nottate nei locali alla moda. Il suo lavoro è scovare gli scoop nella Roma della fine degli anni Cinquanta: la Roma del boom, del lusso e dei divertimenti. Fa una bella vita, con tutti gli agi e le noie dell’agiatezza: non gli manca nulla. Il suo tempo prosegue così, senza scossoni né mutamenti. La vita di Marcello è piena di incontri, ma lui non è stimolato: è fermo al suo essere dandy, giornalista capace ma svogliato, pieno di talento ma dedito ai facili obiettivi. Preferisce continuare ad occuparsi di mondanità anziché dedicarsi alla seria scrittura di un eterno libro che non riesce mai a terminare. Conosce molte donne: Maddalena (Anouk Aimée), la bella e ricca ragazza che compare continuamente nella sua vita; Emma (Yvonne Furneaux), la donna che lo ama morbosamente; Sylvia (Anita Ekberg) la diva hollywoodiana, un sogno tanto bello quanto irraggiungibile; la giovanissima cameriera Paola (Valeria Ciangottini), il volto di un mondo innocente ed estraneo a Marcello. Ma non solo donne: la realtà che circonda Marcello è un teatro vivente, un avanspettacolo, un cabaret, quasi un circo (temi fondamentali nel cinema felliniano). Ci sono i nobili annoiati che evocano gli spiriti nella notte, un padre praticamente assente ed Enrico Steiner (Alain Cuny): il vero padre affettivo di Marcello, l’unica figura che può fungere da guida per il giovane scrittore. Un uomo alto, acculturato, gentile, che odia la superficialità, ma cela, nella sua pacatezza, un’ombra inimmaginabile. Steiner tratta Marcello come un figlio: vede in lui le capacità e la svogliatezza che lo frena. Il signore tiene un quadro di Morandi in casa, noto pittore silenzioso, intimo: un artista capace di rappresentare delle nature morte tanto concrete quanto ricoperte da un alone misterioso di sospensione inafferrabile. Un ottimo parallelo con i personaggi dello stesso Fellini, tanto sostanziosi quanto sfuggevoli. Steiner soffre e si confessa: «Bisognerebbe vivere fuori dalle passioni, oltre i sentimenti, nell’armonia che c’è nell’opera d’arte riuscita, in quell’ordine incantato. Dovremmo riuscire ad amarci tanto da vivere fuori dal tempo, distaccati», così afferma. Ma non riesce a vivere fuori dal tempo, non agguanta quell’essenziale distacco da lui professato, e arriva ad uccidere i suoi due bambini e poi lui stesso. Il padre che poteva indirizzare e cambiare la vita del giovane giornalista se ne va, schiacciato dalla bruttezza del mondo: una Roma tanto bella all’apparenza quanto falsa nel profondo. Non poteva resistere, e decide di portare con sé i bambini, il simbolo del futuro. Qui il dramma è rappresentato da Fellini con maestria: la fine del mondo è così delicatamente portata sullo schermo da non rendercene conto, la percepiamo quasi senza accorgercene. Questo sordo dolore colpisce la vita di Marcello, insinuandosi profondamente. Il racconto della pellicola si conclude con l’orgia finale ed il mostro marino ritrovato sulla spiaggia: lì il giornalista incontra di nuovo la giovane Paola, con la quale non riesce a comunicare, perché il rumore del vento e del mare sono troppo forti. La distanza tra lui, il mondano, l’uomo completamente assorbito dalla vita dissoluta, e lei, la giovane innocente, è definitiva, siderale e incolmabile.
La dolce vita, girato nel 1959 e uscito nel febbraio del 1960, ha da poco compiuto sessant’anni: è uno dei più noti e importanti film di Federico Fellini, un’opera spartiacque nella storia del cinema italiano e mondiale. Un lungometraggio senza tempo: i personaggi rappresentati, belli fuori e pessimi dentro, sono trasportabili in ogni epoca. I protagonisti di Fellini sono così: imperfetti, annoiati e viziosi. Ma non c’è biasimo: il regista rappresenta i suoi umani con affetto, non odia nessuno, è compiacente con i vizi dei suoi uomini. Da lì, il forte contrasto con Pasolini (collaboratore non accreditato alla sceneggiatura): Fellini era un giocoliere, mentre Pasolini un giudice, e avrebbe voluto dare un tono molto più critico all’intera opera. Ma ha prevalso l’assenza di sermoni voluta da Fellini e così Marcello, in particolare dopo la morte di Steiner, si distacca da tutto. Per la sopravvivenza, prosegue a fare parte di quel circo che è la vita, ipocrita e godereccio, vuoto, contro il quale non si può far nulla, se non farne parte senza riflettere su di esso, per non fare la fine di Steiner. La dolce vita è un viaggio con tante tappe mai conclusive: tutte le dissolvenze al nero, gli stacchi tra un episodio e l’altro, avvengono quasi sempre nel momento in cui ci aspetteremmo uno sviluppo della trama, un’azione significativa da parte dei personaggi. E invece no, Fellini sospende il tutto, per non arrivare da nessuna parte.
Perché non c’è nessun insegnamento da recepire: non si è partiti da nessun punto e in nessun luogo bisogna giungere. Come la vita di Marcello, dove tutto inizia e nulla finisce. Ed è per questo che La dolce vita perdura ancora oggi: l’Italia non è più la stessa, ma la sostanza non cambia. Fellini aveva intuito questo vuoto prima di molti altri, senza condannarlo: lo ha accettato, perché c’è ed è immodificabile. Oggi è ancora così, i personaggi sono rimasti: Fellini aveva visto come eravamo e come ancora siamo. Chissà quanto avrebbe potuto girare ancora oggi nel constatare che nulla è cambiato, esclusi i cartelloni della San Pellegrino che non tappezzano più come prima le mura delle città.

Silvio Gobbi

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