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La recensione del film “Joker” diretto da Todd Phillips

«Colui che, rispondendo alla propria vocazione e portandola a compimento si agita dentro la storia, è causa della propria rovina; l’unico a salvarsi è chi sacrifica talenti e doni per potere, sgombro dalla sua qualità di uomo, sprofondare nell’essere» [1]. Descrizione calzante per Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), povero clown pazzo, incastrato in una realtà, in una vita, dalla quale non riesce a fuggire. Un personaggio complesso, segnato da un’infanzia difficile e da un futuro altrettanto tetro: non riesce a sfondare come comico, ed è affetto da un disturbo mentale che lo porta a visioni ed a parossistiche risate isteriche, incontrollabili. I colleghi lo deridono, la gente lo picchia e maltratta nelle strade, vive in un appartamento fatiscente con la madre esaurita: prende svariati farmaci per tenere sotto controllo i suoi disturbi, e si concede piccole fughe mentali pensando di essere un personaggio del suo show televisivo preferito condotto da Murray Franklin (Robert De Niro). In una Gotham City sporca, invasa dalla spazzatura e dai ratti, dove aumenta, di giorno in giorno, il divario tra chi sta bene e chi, invece, tira a campare, la degenerazione sociale rispecchia il decadimento di Arthur. Un tracollo interpretato da Joaquin Phoenix in maniera eccellente: magistrale lavoro di recitazione e mimica facciale, una delle sue più intense interpretazioni. Egli dà corpo al Joker di Todd Phillips con memorabile autenticità: la naturalezza della follia del personaggio è inquietante. Un antieroe nato per ciò che gli è accaduto, come molti altri personaggi dell’immaginario cinematografico e letterario: il colonnello Kurtz divenne pazzo per aver visto «l’orrore», Arthur lo diventa per colpa degli altri. Fleck è il frutto di ciò che ha subito nel tempo: la sordità di una società che non comprende chi si discosta dalla norma, incapace di accettare le alterità. Joker è uno dei tanti pazzi della sua epoca, uno dei tanti che lo status quo non può accettare e malgiudica: «Quel che un’epoca sente come male, è di solito un contraccolpo inattuale di ciò che una volta fu sentito come bene – l’atavismo di un più antico ideale», diceva Nietzsche [2]. E l’inattualità di Arthur sta nella sua profonda gentilezza: la sua dote inattuale è l’esser buono e ciò lo porta ad essere vessato (un folle in cerca affetto, circondato da ciechi). Arriverà ad una serie di azioni estreme, sempre più violente e dettate dal suo ormai incontenibile dolore. Verrà emulato: questo clown violento diventerà simbolo del malcontento delle classi subalterne urbane, degli ultimi di Gotham. Todd Phillips, dopo il suo passato nella commedia (noto a tutti per aver girato la saga di Una notte da leoni) passa al dramma con un salto di qualità inaspettato e sorprendente: prende uno dei personaggi più noti dei fumetti di Batman e ci costruisce questa storia di alienazione, di nevrosi e di anaffettività. Una genesi del male già vista per molti aspetti, ben corroborata dalla regia e dall’interpretazione di Phoenix, vero caposaldo dell’intera realizzazione. Un personaggio che oscilla tra la normalità ed il delirio, un uomo alienato come Chaplin in Tempi moderni (1936), citato nel film: come nella famosa scena mostrata, dove Charlot pattina bendato in un grande magazzino, rischiando di cadere al piano di sotto, Arthur precipita nel vuoto per via dei suoi continui fallimenti: «Tutti i nostri rancori derivano dal fatto che, rimasti al di sotto di noi stessi, non siamo stati in grado di raggiungere la nostra meta. Questo non lo perdoneremo mai agli altri» [3]. Ed Arthur sembra non riuscire a raggiungere la sua meta umana e artistica, costantemente ostacolata dagli «altri». Come canta Sinatra in “That’s Life” (motivo conduttore del film), Arthur è stato «a puppet, a pauper, a pirate, a poet, a pawn», ma mai «a king». Ed egli porta a termine la sua trasformazione, la sua negazione del mondo in cui vive: da accettazione passiva a violenza attiva nei confronti del mondo. Assume la sua forma, decide la sua maschera ed il suo personaggio, arrivando all’esasperazione di sé, con danni individuali e sociali inimmaginabili, apocalittici perché «Si perisce sempre a causa dell’io che si assume: portare un nome è rivendicare un modo esatto di crollare» [4].

Silvio Gobbi

Note

[1] Emil M. Cioran, La tentazione di esistere, Milano, Bompiani, 1988, p. 11.
[2] Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi, 2008, p. 79.
[3] Emil M. Cioran, Sillogismi dell’amarezza, Milano, Adelphi, 2013, p. 64.
[4] E. M. Cioran, La tentazione di esistere, cit., p. 12.

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