Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) è un attore in declino: ha interpretato vari ruoli in serie TV, ma non riesce più a replicare il successo ottenuto con ‘Bounty Law’, il western che lo ha consacrato. Per campare, si ritrova ad accettare ruoli sempre più marginali: nella Hollywood del 1969, dove la città è pervasa da luci incessantemente più abbaglianti, lui si spegne progressivamente. Rick è accompagnato dalla sua storica controfigura, ormai amico e autista tuttofare, Cliff Booth (Brad Pitt): i due si sostengono a vicenda, sempre più depressi e prossimi alla completa scomparsa dal mondo di Los Angeles. Come se non bastasse, i nuovi vicini di casa (anzi, di villa) di Rick sono i coniugi Polański: Roman e la moglie, la talentuosa e bella star in ascesa Sharon Tate (Margot Robbie). Il regista polacco è uno dei personaggi più importanti del momento per il capolavoro Rosemary’s Baby (1968), e Sharon Tate sta diventando una delle attrici-simbolo della nuova Hollywood. Da una parte, quindi, ci sono Rick e Cliff in preda alla solitudine ed all’alcol, dall’altra i coniugi Polański presenti alle feste di Playboy con tutte le star più in voga del momento. Ma Hollywood non è solo fatta di feste, vip e luci che non si spengono mai. L’America del 1969 è in pieno mutamento: il Sessantotto ha scosso il mondo, Nixon prosegue la mattanza del Vietnam ed i giovani americani non ne possono più dei vecchi modelli con cui sono cresciuti. Le nuove generazioni vogliono cambiare la realtà: gli hippie, sempre più numerosi, hanno in mente un modello sociale comunitario affrancato dal lavoro, dalla produttività, dalle logiche statunitensi (ormai non più relegate ai soli States, ma presenti in tutto l’Occidente) basate sulla fatica e sul consumo («Lavorare con lentezza […] pausa pausa, ritmo lento», avrebbe cantato pochi anni dopo Enzo Del Re). Tra questi gruppi, vi sono anche quelli più deviati, come la “Family” di Charles Manson: uno dei personaggi più malati della storia, accompagnato dai suoi psicolabili cuccioli umani.
Quentin Tarantino costruisce la vicenda di Rick, Sharon e dei comunitari di Manson tra parallelismi e punti di contatto, mescolando personaggi inventati e veri, realtà e fantasia, donandoci l’affresco di una Hollywood ormai lontana di cinquant’anni, ricca di immaginazione ed altrettanto densa di riferimenti e dettagli autentici. Con C’era una volta a… Hollywood Tarantino è pienamente sé stesso: si crogiola nel passato, nella sua âge d’or dello spettacolo e del cinema, riempiendo lo spettatore di tutto ciò che egli ama. Una storia fitta e lunga, con protagonisti particolareggiati, raccontata con ritmo incalzante. La nostalgia è molta in questo ultimo Tarantino, ma non cede alla noia ed alla pesantezza: il passato, ciò che è stato, continua a vivere nel suo immaginario, nel suo cuore, e così, vivamente e vivacemente, vuole mostrarlo al pubblico. Vuole rappresentare la sua Hollywood dai neon lampeggianti dell’era di Woodstock, quando il mondo del Rock partorisce i suoi più leggendari rappresentanti e le comunità di hippie cavalcano «[…] la cresta di un’altissima e meravigliosa onda» (dice Raoul Duke in ‘Paura e delirio a Las Vegas’). Giovani che non anelano più alla cupezza, al nichilismo della Beat Generation, di Kerouac per il quale «[…] nessuno, nessuno sa cosa accadrà a nessun altro, se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza» (‘Sulla strada’). Invece Rick, attore del mondo passato, accusa violentemente lo stillicidio degli anni che passano, l’inesorabile ed ineluttabile decadenza di popolarità: la sua fine è la fine di quegli anni quasi antichi. E Tarantino segue, con il suo sguardo perfezionista, questi suoi figli: come con Bastardi senza gloria (2009), il regista prende la storia, i personaggi realmente esistiti e detta lui le linee d’azione cambiando gli eventi. Architetta lo sviluppo con buone trovate, alternando dialoghi spesso densi a momenti di suspense veramente ben riusciti. Quentin non vuole la morte di quella Hollywood (del tempo della sua infanzia): vuole salvarla, renderla eterna, e per ottenere ciò sa che non esiste miglior mezzo della fantasia, capace di plasmare la realtà dei fatti. Ed anche questa volta è riuscito nel mutare il corso degli eventi con ingegno, regalando al pubblico non ciò che è stato, non ciò che è vero, ma ciò che avrebbe desiderato: l’indolore mutamento della Hollywood del 1969. E come non cedere, come non sognare, come non preferire questa fantasiosa e rincuorante versione alla triste verità?
Silvio Gobbi