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Martin Eden
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Recensione: “Martin Eden”, il nuovo film di Pietro Marcello

Martin Eden (Luca Marinelli) ha interrotto gli studi in quinta elementare, imbarcandosi a undici anni: è marinaio sin da bambino, ma ora è un giovanotto. Un giorno salva il giovane Arturo Orsini (Giustiniano Alpi) da un pestaggio al porto. Per ringraziarlo, Arturo invita Martin a casa sua, una bella villa. La famiglia Orsini è altolocata: il marinaio si sente fuori posto ed è, al tempo stesso, affascinato da quell’ambiente. La sorella di Arturo, Elena (Jessica Cressy), cattura sin da subito l’attenzione di Martin e tra i due scatta la scintilla. Da quel giorno, Martin si impegna sempre di più per omologarsi all’ambiente dell’amata: cerca di istruirsi, di migliorare i propri modi per stare con lei. Diventa un lettore avido, studia tutto ciò che può e, tanto più si amplia la sua conoscenza, tanto più cresce la sua inquietudine. Decide di diventare uno scrittore, pur non avendo nemmeno la licenza elementare: i suoi racconti, aspri e crudi, vengono continuamente rifiutati dalle riviste. Non ha una lira e tira a campare: ciò porta ad un altalenante rapporto con Elena e la vita di Martin diviene sempre più complessa con l’andare del tempo.
In una Napoli del passato, situata in un’epoca indefinita che ricopre i primi sessant’anni del Novecento, si svolge la parabola di Martin: individualista non liberale né socialista, è in continua tensione tra le origini sottoproletarie e l’alta borghesia; egli vuole divenire ciò che si sente di essere, ma non viene accettato né da una parte né dall’altra (galleggia tra i due universi come le sue navi sul mare). Martin Eden, di Pietro Marcello, è liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Jack London (scritto nel 1909): la struttura del personaggio è vicina a quella dell’autore americano (un autodidatta, di umili origini, innamorato di una ragazza dell’alta borghesia, che cerca in tutti i modi di affermarsi in un ambiente non suo). Ma Marcello va oltre: decide di prendere questo soggetto sviluppandolo a modo suo, innestando, in questo embrione così americano, la realtà italiana di quegli anni. Dopo un passato da documentarista, il regista si cimenta in questa seconda opera drammatica: Martin Eden è sia la storia di un individuo che l’affresco di un’Italia che non c’è più. Una pellicola drammatica dalla forma sperimentale, desiderosa di spaziare tra poesia, narrazione, documentario, società e storia d’amore in maniera audace, con un linguaggio non lineare per essere il più possibile in linea con la complessità dell’intera vicenda (fortunatamente, la cappa di Rai Cinema questa volta non pesa come il piombo). Il tempo scorre in maniera irregolare, senza precisione cronologica: la vicenda di Martin si sviluppa attraverso frammenti documentari, ambientazioni e costumi tali da confonderci, saltando da un’epoca ad un’altra (il regista è capace di alternare dei personaggi con abiti dei primi del Novecento ad un televisore degli anni Sessanta). Gli eventi fluttuano tra i decenni del mutamento italiano, quando tanti passi in avanti sono stati fatti ed altrettanti indietro sono stati compiuti, senza risolvere i problemi ancestrali: come Martin stesso, sospeso tra l’affermazione sociale ed il dolore delle passate sconfitte. La storia di Eden è la metafora del Paese, di un’apparente evoluzione in corso, ancora ben lontana dalla conclusione. Martin, prima marinaio ignorante, poi grande autore, nutrito dalle letture di Baudelaire e Spencer, è ottimamente interpretato da Marinelli, capace di calarsi in una così complessa figura.
Libertà individuale con echi di Thoreau, Martin è un personaggio che riesce a fondere gli Stati Uniti e l’Italia, i vasti spazi del Nuovo Mondo e le strette insenature dei nostri golfi, collimando due universi così distanti, due modelli di pensiero quasi antitetici: la volontà di autoaffermazione tipica degli States e l’immobilità millenaria italiana. Una storia senza epoca perché racchiude più epoche: presente e passato si contendono la primazia; e Martin cresce con difficoltà, come l’Italia. Un tentativo coraggioso per il cinema italiano, dettato dalla volontà di rielaborare la memoria del passato per produrre una novità, senza aver paura di contaminarsi con altri modelli (come la letteratura americana ed una regia fuori dagli schemi). Un efficace e riuscito tentativo di fuga dalla fiacca e dallo spleen di troppa nostra recente produzione nazionale.

Silvio Gobbi

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