Siamo nell’Italia del 1952. In un paesino della provincia di Venezia si è verificato uno spaventoso fatto: un ragazzino di nome Carlo ha ucciso un suo coetaneo, Emilio, credendo che fosse il demonio. La famiglia del defunto, i ricchi possidenti Vestri Musy, credono che Carlo abbia commesso il delitto su istigazione del clero locale. Tale sospetto, porta la famiglia a togliere l’appoggio alla Democrazia Cristiana per le prossime elezioni del 1953. La DC è al governo con la maggioranza relativa dei voti e assoluta dei seggi, ma sta perdendo consensi in ambito nazionale: non è previsto il pienone del 1948. L’eventuale coinvolgimento della Chiesa in un fatto così grave porterebbe il partito di governo ad ulteriore discredito e perdita. A Roma, il Vaticano, De Gasperi, ministri e sottosegretari sono preoccupati: si decide di inviare il giovane funzionario ministeriale Furio Momenté (Gabriel Lo Giudice) nella regione per districare la matassa dell’omicidio di Emilio, cercando di insabbiare il tutto e salvare il clero da ogni eventuale coinvolgimento. Furio studierà il caso e le dichiarazioni del giovane Carlo. Ricostruirà le vicende ed i personaggi intorno a questo delitto, entrando in un mondo oscuro, popolato da una realtà tanto semplice quanto spaventosa, in un veneto remoto ancora intriso di leggende e superstizioni contadine: quanto di tutto ciò è vero? Quanto il demonio è presente nella verità dei fatti?
Per Pupi Avati non poteva esserci ritorno migliore. Con Il Signor Diavolo, il regista bolognese, classe 1938, riesce a traghettarci in un immaginario completamente perduto nel mondo secolarizzato dei giorni nostri, dove è pienamente compiuto il processo di «disincantamento del mondo» («Entzauberung der Welt», Max Weber, 1919). Avati, tramite un soggetto dalle radici antiche ma non invecchiate, realizza un thriller-horror di qualità come pochi in circolazione: la regia si caratterizza per sequenze capaci di alternare lentezza e velocità, pausa e ritmo, con una suspense ben dosata e inquadrature claustrofobiche all’occorrenza. L’autore riesce a catturare lo spettatore, tenendolo sulle spine dall’inizio alla fine, in un Veneto misterioso, dalle ambientazioni capaci di rievocare l’atmosfera delle campagne di quell’epoca, con dei colori che sfumano tra il grigio, il nero ed il seppia.
Non svelo il finale, ma il regista ce lo fa intuire sin dall’inizio, rievocandolo continuamente lungo tutta la pellicola: riesce già a dirci, in via subliminale, come finirà senza farcene rendere conto. In questa ora e mezza di mistero, egli non solo realizza un horror degno dei suoi tempi d’oro (come La casa dalle finestre che ridono, 1976), ma narra anche un’Italia ormai perduta, quella delle campagne degli anni Cinquanta. Scrittori, intellettuali, studiosi come Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli, Le parole sono pietre), Ernesto de Martino (Sud e magia), Nuto Revelli (Il mondo dei vinti, Il popolo che manca), Bacchelli (Il mulino del Po), Cesare Pavese (Paesi tuoi) e molti altri si sono occupati del mondo contadino della penisola, dal Nord al Sud, lasciandoci un calderone di storie ed informazioni dal quale attingere. E Avati così ha fatto: ha attinto dalla storia, dalle leggende e dalla sua memoria, realizzando quest’opera pregna di quell’epoca, di quelle atmosfere, di quei mestieri, riti e superstizioni che ormai non ci sono più; un horror che si fa affresco antropologico e sociologico. La figura di Emilio, il demone, rispecchia le rappresentazioni delle leggende campagnole: deforme, ambiguo, folle, mezzo maiale, ricorda quei personaggi presenti nel Cristo di Levi. Qual è la realtà? Quanta è la suggestione? Non è dato saperlo con precisione: nel mondo antico tutto era vero, tanto il sacro quanto il profano, tanto la verità quanto la superstizione. Il demonio era una figura presente nelle campagne del Nord, del Centro e del Sud Italia, mescolandosi con la vita di tutti i giorni come se niente fosse, portando il buio nella luce del giorno. Ed è il buio che avvolge Il Signor Diavolo: un’oscurità che coinvolge ogni figura, perché nulla è come appare ed ognuno è più colpevole di ciò che sembra.
Silvio Gobbi