Sin dall’antichità, la donna non se l’è passata bene: nella Bibbia, Eva cede al serpente e corrompe Adamo con il frutto proibito (il frutto della conoscenza del bene e del male) ed Esiodo riteneva la donna una punizione, l’origine di tutti i mali del mondo. Gli atteggiamenti più aperti verso le donne di Socrate e Platone (quest’ultimo, un po’ più altalenante nel giudizio) non si radicarono nella cultura comune, tant’è che Aristotele considerava le femmine biologicamente inferiori agli uomini. Successivamente, la situazione non migliorò. Particolarmente nel Medioevo e nell’Età Moderna, la donna è stata vista (al di là dell’idealizzazione presente in certa letteratura), come un essere debole, incostante, a volte strega, altre meretrice (e queste sono solo alcune delle etichette appioppate nel tempo). O la donna restava in casa a custodire il focolare domestico, obbedendo remissivamente al maschio di turno (in ordine: padre, fratello e marito) o diventava la peggiore delle creature viventi. Le donne sole erano malviste, delle poco di buono. Ciò è durato per molto: solo dalla metà del Novecento abbiamo cominciato a vedere un concreto, ma ancora timido e molto lungo, cammino verso l’emancipazione e la parità femminile. Di conseguenza, l’arte ha rispecchiato molti degli stereotipi femminili, ed il cinema non è stato da meno: donne principesse, donne sognanti, romantiche ed un po’ pedanti, oppure invidiose e corruttrici (ancora oggi, certe pellicole, ricalcano questi modelli). Ma, dalla metà del secolo scorso, sulla scia dei mutamenti sociali, un certo tipo di cinema ha cominciato a rappresentare una figura femminile diversa, delle donne differenti, capaci di distinguersi per la loro unicità. Donne vere, ricche di sfaccettature e complessità mai viste prima. Figure dalle turbe profonde, desiderose di affermare il proprio essere senza nascondere i loro dolori, capaci di mettere a nudo i loro più reconditi desideri e timori, come le protagoniste di Persona di Bergman (1966) o Nana (Anna Karina) di Vivre sa vie di Jean-Luc Godard (1962). Inoltre, ci sono anche storie di donne tenaci, caratterizzate da una peculiare resilienza. In questa sede, tre figure di questo genere verranno prese in considerazione: tre madri che cercano di migliorare la loro condizione, di fare ciò che ritengono giusto, di ottenere giustizia. Mamma Roma, di Pasolini (1962), fa al caso nostro. Anna Magnani interpreta Roma Garofolo, una ex prostituta che riesce a comprarsi la libertà per aprire poi un banchetto al mercato. Vuole migliorare la propria condizione, è una donna forte, dal passato doloroso, e ha un unico figlio, Ettore: desidera che il giovane non diventi un delinquente, che sia un uomo onesto con un dignitoso lavoro. Ambientato nella periferia romana degli anni Sessanta, Pasolini narra, con il suo cinema tra prosa e poesia, una vicenda radicata nella realtà del tempo, sulla quale spicca la forte figura interpretata dalla Magnani. Attraverso un bianco e nero a tratti grigio e a tratti tagliente, il poeta racconta una feroce storia di riscatto: Mamma Roma non vuole più battere, non vuole più vivere ai limiti della società. Brama il meglio, per lei e per suo figlio Ettore: in sostanza, un futuro per entrambi. In quelle anonime periferie, dove la parola “futuro” sembra non esistere, Roma cerca di costruirselo: una donna sola, che stringe i denti fino al finale sacro e tragico. Lei non rappresenta più una delle «Madri servili, abituate da secoli / a chinare senza amore la testa, /a trasmettere al loro feto / l’antico, vergognoso segreto / d’accontentarsi dei resti della festa.» (Pasolini, “La ballata delle madri”, in Poesia in forma di rosa). Come non sono abituate a chinare la testa e ad «accontentarsi dei resti della festa» le donne di Pedro Almodóvar: maltrattate o abbandonate dagli uomini, queste pittoresche spagnole sono protagoniste di storie indimenticabili. Specialmente Manuela (Cecilia Roth), protagonista di Tutto su mia madre (1999). Una donna sola (come Roma) che decide di tornare a Barcellona dopo aver perso il figlio, Esteban, in un incidente. Nella città catalana, Manuela vuole trovare il padre del ragazzo (ora un transessuale malato di AIDS) per dire a lui del figlio morto che non ha mai conosciuto. Lì è la forza di Manuela: il coraggio di chiudere le questioni con il passato (l’abbandono da parte del marito) per oltrepassare il lutto del figlio e continuare la propria vita. In una pellicola dai personaggi ricchi di particolari e sfumature, dalle ambientazioni con colori forti e vividi, dove gli ambienti si fondono con i protagonisti dando ulteriore tono alla vicenda di Manuela, Almodóvar racconta la storia di questa donna che piange quando deve e ride quando serve: una figura che cresce lungo il film, a piccoli e graduali passi, dimostrando di sapere cosa vuole e non temendo di soffrire per il bene del suo futuro. Un’altra signora che non teme di soffrire è Mildred Hayes (Frances McDormand) in Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh (2017). Mildred ha perduto sua figlia a causa di uno stupro feroce e vuole che la polizia scopra chi ha commesso il delitto. Determinata, passionale e dura al tempo stesso, sprona a tutti i costi le forze dell’ordine per scoprire la verità. Riesce a scardinare la tranquillità della sua maschilista comunità: una giusta piantagrane che non sa stare zitta, che vuole giustizia non curandosi del quieto vivere. Non chiede pietà, ma giustizia per l’amore perduto, sottratto con violenza. La più combattiva delle nostre tre donne, distanti nel tempo e nei luoghi, ma accomunate da una forte individualità senza retorica. Donne passionali, ma non smielate, che pretendono ciò che meritano, non la pietà (quest’ultima, troppo spesso, usata con ipocrisia). «Anna voleva amore, non pietà». Ciò chiedeva Anna, protagonista dell’omonimo film indipendente di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, lo stesso vogliono le nostre tre donne esaminate: amore, non pietà; risultati, non compassione. Queste tre storie di donne tenaci sono da esempio per le donne stesse e per tutti quanti. Perché esse non sono più «Madri mediocri, che hanno imparato […] a non dare né dolore né gioia» né «Madri mediocri, che non hanno avuto / per voi mai una parola d’amore, / se non d’un amore sordidamente muto/ di bestia, e in esso v’hanno cresciuto, / impotenti ai reali richiami del cuore» (Pasolini, “La ballata delle madri”). Roma, Manuela e Mildred sono tre madri, tre donne non più mediocri, che conosco il dolore e la gioia e non si vergognano né dell’uno né dell’altra. Come Jafar Panahi, nel suo ultimo film Tre volti, affida la metaforica rappresentazione del passato, del presente e del futuro dell’Iran a tre figure femminili, noi utilizziamo questi tre esempi cinematografici per rappresentare l’ancora necessario e lungo passaggio della condizione femminile dal passato silenzioso ad un futuro più equo, imparando la lezione da queste donne forti che non perdono la propria identità e non sono più «impotenti ai reali richiami del cuore»: un esempio per l’otto marzo e tutti gli altri giorni dell’anno.
Silvio Gobbi