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La paranza dei bambini
La paranza dei bambini

Recensione: “La paranza dei bambini” senza futuro

Nicola (Francesco Di Napoli) è un quindicenne del Rione Sanità, quartiere di Napoli. Una realtà immune ad ogni forma di controllo: una zona franca dove i camorristi si fanno la guerra per controllare lo spaccio e l’estorsione. In mezzo a questo inferno stanno i ragazzini come Nicola, le “paranze” (i pesci piccoli): scugnizzi dediti alla piccola criminalità, spesso senza padre (perché è o morto, o in galera), con madri rassegnate, le uniche a portare qualche soldo in casa con lavori occasionali. Nicola è stufo di esser povero e di vedere la madre lavandaia costretta a pagare il pizzo. Decide quindi di entrare nel clan del quartiere, per guadagnarsi da vivere e per aiutare in casa. Ma la vita del giovane nel mondo della Camorra si fa sempre più rischiosa, fino ad arrivare al punto di non ritorno: la delinquenza lo assorbe così tanto da non poter più uscirne. Questa è La paranza dei bambini, film di Claudio Giovannesi (in concorso al Festival di Berlino), tratto dal romanzo omonimo di Roberto Saviano. Una storia simile a quelle già viste in vari documentari o fiction tipo Gomorra: il tema in sé, ormai, non è più nulla di nuovo. Ma nuova è l’impostazione dell’opera: la concentrazione degli autori sull’universo minorile che ruota intorno al sistema camorristico e mafioso in generale. Quei ragazzini, spesso lasciati in ombra per dare spazio alle vicende dei boss veri e propri, qui diventano i protagonisti. Sono dei giovani bramosi di lusso, denaro, potere: non solamente corrieri della droga, ma veri e propri delinquenti in erba, capaci di impugnare un M12 ancor prima di imparare a farsi la barba. Ciò che colpisce di quest’opera è la naturalità del male: i ragazzi vivono nella delinquenza con una spontaneità disarmante. L’illegalità che permea il mondo è giusta al loro sguardo, non è un problema: il bene è il male. Il loro è un mondo di assenze: assenza della scuola, assenza dello Stato (la polizia è una figura sporadica, quasi inesistente), assenza del padre. Quest’ultima è la mancanza principale, quella che condiziona non solamente la crescita dei ragazzi, ma la struttura sociale nella sua totalità: non ci sono figure autorevoli positive, di riferimento, per questi adolescenti, al di fuori dei criminali. E ciò li conduce a delinquere, a morire. Giovanissimi che cercano unicamente i soldi per i soldi, il potere per il potere, in un’ottica adolescenziale che ondeggia tra l’innocenza e l’incoscienza. E, una volta intrapresa questa via, nessuno può tornare indietro. La paranza dei bambini è un film duro, feroce, capace di prendere allo stomaco e di straziare per il dolore di ciò che viene mostrato senza cedere alla truculenza: dimostra, ancora una volta, quanto noi italiani siamo bravi a rappresentare, a parlare dei nostri drammi e problemi, senza essere capaci di risolverli. Attraverso il tema dei giovani camorristi, la pellicola scende nel più profondo senso d’abbandono: il vero incubo e demonio di questa generazione, l’assenza di legami e di fiducia nel domani. Un vuoto, ramificato nelle strette e fitte vie di Napoli, capace di allargarsi al mondo intero. Un luogo in cui ci si può solo smarrire, crudele nella sua violenta entità annichilente, un incubo vero ed aspro, un deserto che inghiotte «[…] come un sogno che non lascia dormire e da cui non ci si può risvegliare» (Pasolini, Teorema). Ed è proprio in questi luoghi, dove lo Stato è scomparso o non ha attecchito, dove «[…] lo Stato è straniero e si mantiene straniero» (Carlo Levi), dove i padri non sono pervenuti, che la tragedia di Nicola e dei suoi compagni è destinata a durare all’infinito, a ripetersi di generazione in generazione, lasciando che il sangue e l’abbandono siano gli unici fertili padri di quei giovani orfani senza futuro.

Silvio Gobbi

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