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La recensione: “Widows”, thriller d’autore di McQueen

Veronica (Viola Davis) è la moglie di un ladro professionista, Harry Rawlins (Liam Neeson). Harry realizza, con la sua squadra, grandi colpi: un ladro di classe, che lavora sia per sé che su commissione. L’ultimo colpo finisce in tragedia: Harry e i suoi muoiono in un tragico incidente. Veronica rimane sola, ma il lutto non è la sua unica pena: Jamal Manning (Bryan Tyree Henry), un delinquente e politico, “vittima” dell’ultimo furto di Harry, chiede alla donna di essere risarcito dei soldi rubati. Veronica decide di accordarsi con le altre vedove della banda del defunto marito per realizzare un grosso furto, per pagare così il ricatto e sistemare le proprie vite. La trama si farà sempre più fitta, il piano delle vedove non sarà per nulla facile ed emergeranno amare commistioni tra delinquenza e potere politico. Steve McQueen con le sue “widows” (vedove) rinnova il genere del thriller con una nuova declinazione autoriale. Il regista, di formazione artistica (scultura, fotografia e video-arte), è alle prese con il suo quarto lungometraggio, ispirato ad una serie degli anni Ottanta, e sceneggiato insieme a Gillian Flynn. L’autore confeziona una storia dalla struttura nota, ma nella sostanza piena di novità e spunti. La produzione cinematografica riguardante furti e delinquenza è enorme e variegata (da I soliti ignoti a Ocean’s Eleven), ma qui il regista inglese decide di andare oltre gli stereotipi del genere. Il suo Widows è innovativo sia per l’aspetto visivo che per quello contenutistico. Dal punto di vista formale, forte è l’eredità della formazione artistica: le inquadrature inusuali e le sequenze originali scardinano, abilmente, gli standard del genere trattato. McQueen rifiuta l’ormai consolidata scuola e grammatica del thriller, come uno studente indisciplinato ma capace, tanto da rimodulare il proprio cinema attraverso il bagaglio artistico acquisito prima di cimentarsi nella settima arte (abilità mostrate sin dal suo esplosivo esordio, Hunger). Ma egli non esprime abilità tecnica fine a se stessa: la sua grafia cinematografica è corroborata da soggetti potenti, storie note e nuove al tempo stesso, come in questo suo ultimo caso. Un plot già bello e visto, ma rinnovato dalla costruzione della vicenda e dalla particolarità dei personaggi: quattro donne, ognuna diversa dall’altra, con un rapporto pessimo tra di loro, accomunate soltanto dalla ricerca di salvezza e riscatto. Lontane dalle piaggerie da blockbuster, fuori dagli stereotipi di genere e del genere, le vedove non sono eroine sicure di loro stesse come i film ci fanno spesso vedere. Sono spaventate, impreparate, piene di difetti, ma vogliono arrivare fino in fondo, pur con mille dubbi. Il regista ci dona una storia di criminalità, politica, tradimenti, senza dicotomie né nette differenziazioni tra vittime e carnefici, senza distinzioni razziali tra il bene ed il male (i neri sanno essere spietati tanto quanto i bianchi). L’autore condanna l’uomo in sé, pieno di luci e ombre a prescindere dal colore della pelle, pronto a cedere al male per il proprio bene. In una pellicola dove la narrazione non sfocia nella didascalia, McQueen riesce a realizzare l’equilibro tra le pasoliniane categorie di “cinema di prosa” (narrazione della vicenda) e “cinema di poesia” (espressività degli eventi), rappresentando la drammatica vicenda di queste widows d’autore difficilmente dimenticabili.

Silvio Gobbi

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