È facile abituarsi alla routine. Il paese, gli amici, la famiglia, il lavoro ordinario: tutto si reitera, giorno dopo giorno, e nemmeno ce ne accorgiamo. Non viviamo, bensì sopravviviamo. Andiamo avanti, come automi, «tirando avanti, lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai» (diceva Mark Renton nel monologo finale di Trainspotting). Questo tirare avanti è lo stile di vita di Riko (Stefano Accorsi), il quale si barcamena tra un matrimonio difficoltoso ed un lavoro insoddisfacente (operaio in un salumificio). Amante della musica, non ha mai sfondato nel settore, e vive al momento un periodo di forte crisi con la moglie Sara (Kasia Smutniak). La sua vita prosegue staticamente, tra serate alcoliche e goliardiche con i propri amici e momenti di tradimento coniugale. Lo scorrere del tempo è caratterizzato da vicende altalenanti: attraverso crisi, felicità, perdita di lavoro, depressione e lutti, Riko prosegue nel suo cammino esistenziale. Tutto ciò è Made in Italy, la terza opera cinematografica di Luciano Liguabue, il noto cantautore. Il soggetto della storia è noto e lo sviluppo altrettanto. Ma sono lo stesso riscontrabili dei punti di forza. La recitazione dei protagonisti è ben riuscita: Stefano Accorsi e Kasia Smutniak funzionano perfettamente come coppia (sia nei momenti felici che in quelli di crisi). Inoltre, il miglior modo per valutare Made in Italy è quello di vederlo come una sorta di ipotetico seguito alternativo, differente, della prima opera di Ligabue stesso Radiofreccia (1998). Il protagonista di quest’ultimo film è Freccia (sempre Accorsi), un giovane intelligente ma sbandato, collaboratore di una radio libera, il quale non riesce ad uscire dall’eroina. Come sappiamo, l’epilogo di Freccia è tragico. Made in Italy è l’alternativa al drammatico finale della prima opera: “Riko/Freccia” non è più un tossicodipendente (al massimo si sbronza con gli amici). Ha un lavoro (anche se non soddisfacente), ha una famiglia (anche se non è fedele alla moglie) e segue una vita ordinaria (“borghese”, si sarebbe detto negli anni Settanta!). Ma, pur nell’ordine, non c’è felicità. Il tempo strema lui e la moglie, le ipocrisie li devastano e la vita continua a proseguire, a galleggiare. Sostanzialmente, a questo alter ego di Freccia non è andata poi così bene: la vita ha lo stesso i suoi difetti, anche senza droga. Ma questa è la vita, la maturità: un insieme di compromessi necessari per andare avanti, per sopravvivere. E tale insoddisfazione latente si ripercuote nella famiglia, specialmente nei confronti della moglie, la quale ama e soffre per il marito parossisticamente. Ma, pur nell’assenza di perfezione assoluta, Ligabue vuol farci vedere che ogni nostra scelta è perfettibile: si può sempre migliorare la situazione che viviamo, dipende solo da noi e dalle persone a cui teniamo. Per questo Riko, dopo pesanti vicissitudini, riesce a ricongiungersi con Sara e con se stesso: raggiunge una sua serenità. Il nostro “Riko/Freccia” è riuscito, ancora una volta, a superare gli ostacoli. Buon per lui, buon per la moglie, buon per noi. Ligabue sottolinea quanto sia importante fidarsi di chi ci ama: la forza di volontà individuale è necessaria, ma il supporto dei cari è fondamentale. Ascoltando troppo se stessi, si rischia di finire inghiottiti dal buco di Freccia: solo ricambiando l’amore di chi ci ama possiamo risollevarci, come Riko.
Silvio Gobbi