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Home | Cultura | La recensione: “Manuel”, una realtà senza uscita
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La recensione: “Manuel”, una realtà senza uscita

Pubblicato da Mauro Grespini in Cultura 1,317 Visite

Manuel (Andrea Lattanzi) ha 18 anni. Finalmente può lasciare l’Istituto-famiglia dove ha trascorso parte della sua vita. Ora è il momento di andarsene dalla Comunità, quella sorta di “prigione dorata”, dove ha vissuto in una condizione di sospensione tra l’infanzia e l’età adulta. Una volta tornato a casa, nell’anonima periferia romana, il protagonista si fa in quattro per far ottenere alla madre gli arresti domiciliari: sistema l’appartamento di famiglia, parla con avvocato e assistente sociale e si trova un lavoro per convincere il tribunale a commutare la pena della madre, dalla detenzione in prigione agli arresti domiciliari. Manuel vive pesantemente questa situazione: si sente soffocare a causa delle responsabilità a suo carico. I suoi dubbi si fanno sempre più pesanti e nel giovane si fa sempre più spazio una forte crisi. Manuel di Dario Albertini è il primo lungometraggio scritto e diretto dall’autore, dopo un passato da documentarista. Questo film riprende degli aspetti del documentario: la realtà viene descritta per quella che è, senza moralismo né noia didascalica. Il regista descrive la vita di un ragazzo come tanti, nato e cresciuto in un ambiente plasmato da una delinquenza che oscilla tra la necessità di sopravvivenza e la spavalderia. L’intera pellicola è pervasa da un forte senso di solitudine: Manuel è abbandonato a se stesso e circondato da poco raccomandabili compagnie. Ovunque egli sia, è sempre in prigione (dall’Istituto al mondo di fuori), perché ogni personaggio è distante e sordo nei confronti del giovane protagonista. Non c’è alcun patetismo nella pellicola: il tutto è narrato con una asciuttezza pregevole, senza sbavature. Albertini, con questo lavoro, realizza un’opera fortemente realista. Egli pone il giovane protagonista in una storia essenziale, di una lucidità agghiacciante, esente da ogni forma di retorica: Manuel, giovane buono dalla fisionomia da anti-eroe, non potrà mai trovare riscatto in quell’ambiente. Comunità, prigioni e riformatori sono inutili, perché i soggetti internati, una volta usciti, tornano a vivere nei luoghi dove i loro problemi sono nati: gli istituti correttivi diventano soltanto dei “luoghi di sospensione” dal caos del proprio ambiente d’origine. La tecnica di Albertini è asciutta, precisa, dai toni grigi. I personaggi vengono rappresentati nella loro natura e realtà, senza edulcorazioni: ogni personaggio vive una profonda condizione di povertà esistenziale. Nel realismo di questa pellicola, i personaggi combattono contro se stessi e contro la vita che li circonda, dove ogni possibilità di riscatto è sfumata, perduta. Ora i tempi sono cambiati: nel cinema del passato, il simbolo del riscatto era il lavoro, il quale permetteva di uscire dalla povertà, ma adesso non è più sufficiente. Manuel ha trovato lavoro, ma la disoccupazione non è l’unico vero problema di lui (e di tanti altri giovani di quell’ambiente). Il problema è l’ambiente stesso dove si vive, si lavora, si consuma e si crepa. In uno dei migliori film del nostro cinema neorealista Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948), la disperazione del protagonista derivava dal suo essere disoccupato e la bicicletta diventata per egli non solo il mezzo per lavorare come attacchino, ma era il suo vero e proprio mezzo di affrancamento dalla povertà e l’unica occasione di migliorare la propria vita. Nel nostro lungometraggio, Manuel trova lavoro in un panificio, ma non è sufficiente. Perché il suo è un dolore personale, sociale e generazionale. Sa che rimanendo lì è condannato solamente a vivere, ma non a realizzarsi come individuo: non potrà mai trovare la propria strada, perché dovrà spendere la propria vita tra la madre e la poco raccomandabile vita di periferia. Manuel vive il suo “anno zero” statico e senza progressione. Nella pellicola c’è una citazione palese de L’Atalante di Jean Vigo (1934), quando il nostro giovane protagonista immagina di tuffarsi e di affondare in un mare tetro. Ma mentre nell’opera di Vigo l’immersione nell’acqua aveva un significato vitale, in quanto esprimeva il desiderio del protagonista di ritrovare la sua amata moglie, in Manuel il tuffo nel mare è mortifero: sembra quasi un catrame che cola sul giovane, indicando così l’impossibilità del protagonista di riscattarsi. Essenzialità dei dialoghi, musica quasi totalmente assente, personaggi completi nella loro sintesi e nelle loro luci e ombre: Dario Albertini realizza un film che si radica nel nostro tempo. Come in un documentario, l’autore cerca di rappresentare, con la massima aderenza alla realtà, uno spaccato di vita di un determinato ambiente. Un nuovo realismo che discende dal passato, dall’originario «cinema antropomorfico» di Visconti e dal «Neorealismo», ma in un’ottica attuale, precisa per questo nostro «mondo liquido» che è andato oltre le vecchie ideologie e classi, dove il tutto si è mescolato in maniera non ancora chiara. Con questo “Realismo contemporaneo” (o potremmo anche definirlo, in un gioco di parole, Nowrealismo) le possibilità di riscatto di chi è disagiato si sono fatte ancora più basse rispetto a prima. Manuel, alla fine del film, straziato, guarda in silenzio verso il pubblico. Ma pur non parlando, egli ci dice chiaramente: “Nessuno può uscire dalla propria realtà”.

Silvio Gobbi

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recensione cinematografica 2018-06-01
+Mauro Grespini
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TAG: recensione cinematografica

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