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"Oltre la notte"
"Oltre la notte"

La recensione: “Oltre la notte”, il dolore della perdita

Una giornata come tante, piena di quei piccoli riti e gesti quotidiani quasi automatici, ai quali non fai più caso. Accompagni tuo figlio, o tua figlia, da tuo marito o moglie, poi prendi la macchina per fare le tue commissioni. Le ore scivolano via, ma, quando torni a casa, sulla strada, noti un fiume di gente incuriosita, auto della polizia e sirene. Sirene che allarmano e danno ritmo al brusio della gente intorno, curiosa e spaesata al tempo stesso. Immediatamente non ricolleghi, non capisci, sei in confusione come gli altri presenti. Poi, più ti avvicini al punto di arrivo, più le tue remote fobie cominciano a prendere corpo, fino a che non scopri che sono proprio i tuoi cari ad essere stati travolti da quella tragedia che ha mobilitato l’intero quartiere: da lì, inizia un interminabile dolore. Questo è il dramma che vive Katja Sekerci (Diane Kruger), protagonista dell’ultimo film del regista tedesco di origini turche Fatih Akın Oltre la notte (Aus dem Nichts), la quale perde marito (turco) e figlio a causa di un attentato di matrice neonazista: l’intera storia, divisa in tre capitoli (“la famiglia”, “la giustizia” e “il mare”), percorre il dramma intimo e le peripezie giudiziarie della donna durante e dopo il processo nei confronti dei responsabili dell’attentato. In quest’ultima pellicola, il regista turco-tedesco, noto a tutti per il suo capolavoro La sposa turca (Gegen die Wand, 2004, con il quale vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino), cerca di recuperare quella forza autoriale, quella grinta che aveva caratterizzato le sue prime pellicole (tra le più originali nel panorama cinematografico del decennio scorso). Akın costruisce questo suo ultimo lavoro ispirandosi a fatti veri accaduti nei primi anni 2000, dove in Germania furono commessi numerosi assassinii ed attentati nei confronti di persone di nazionalità non tedesca, da parte della cellula terroristica neonazista tedesca Nationalsozialistischer Untergrund (NSU). In Oltre la notte, l’autore racconta un dramma individuale ed etnico-sociale al tempo stesso: un aspetto, quello etnico, sempre presente nelle maggiori opere di Akın, il quale ha nella sua biografia e nel suo sangue il contatto tra la cultura europea e quella medio-orientale. Infatti, al centro di molte sue opere, c’è il tema dell’incontro (o del conflitto) tra “due mondi”, senza mai scadere in una rappresentazione cinematografica retorica del classico “cinema politico” di genere: Akın, nell’elaborare i suoi soggetti, non rinuncia mai alla sua visione, alla sua originalità personale ed autoriale, rappresentando sia il mondo “Occidentale” che quello “Orientale” nei propri difetti e pregi, senza sconti. Ed anche in questa sua ultima storia, non c’è una fazione completamente “buona” o “cattiva”, perché anche la parte lesa e sofferente, Katja, è rappresentata nella sua totalità, senza buonismo né retorica. Ella è la vittima, in quanto ha perduto la propria famiglia, ma allo stesso tempo è una debole, perché cede (in parte) alla droga per lenire il dolore che vive e cova un rancore vendicativo nei confronti dei terroristi. Ma non la si può biasimare: lo spettatore non può non convenire con le sue scelte e azioni, giuste o sbagliate che siano, perché la sofferenza è costruita in maniera tale da essere naturalmente traghettati nel labirinto di dolori ed errori della protagonista (una mai così intensa Diane Kruger, la quale, con questa interpretazione, ha giustamente vinto il premio come “Miglior attrice” al Festival di Cannes 2017). Inoltre, il film è ancor più interessante per come la storia viene raccontata, per l’enorme flessibilità tecnica del regista. Dall’inizio alla fine, Akın muta spesso lo stile della ripresa. Nel primo capitolo, le riprese del regista sono “incostanti”: le scene, le inquadrature, passano da veloci (a scatti in certi casi) a troppo “lunghe” (sembra di assistere, in certi punti, ad un video amatoriale). Tale “scompostezza” nella regia è utile a rappresentare la sofferenza della protagonista, il disequilibrio che vive a causa dell’angoscia (che può mandare chiunque fuori di testa), fino a percepire tutto ciò che sta intorno in maniera alterata e confusa, o troppo lenta o estremamente sincopata. Successivamente, il regista muta lo stile: nelle aule del tribunale, la camera diventa pulita, quasi “asettica”, precisa nelle inquadrature, nei primi piani, nel campo-controcampo, nelle simmetrie dei personaggi che compongono la scena, con una luce sempre impeccabile, senza alcun errore. Perché il tribunale rappresenta la parte “logica” del film, dove i vari personaggi devono cercare di cedere il meno possibile all’emotività per dare spazio al raziocinio, per poter perorare, ognuno, le proprie ragioni. Ed infine, nell’ultimo capitolo, i due “stili” cinematografici sopra descritti arrivano ad un compromesso: la “scompostezza” e la “razionalità” sono entrambe presenti, si completano, concorrendo a descrivere la maturazione e la decisione finale di Katja. Una decisione pregna di dolore e di consapevolezza, di delirio e raziocinio (una sintesi, come se la vedova avesse passato le fasi alchemiche di nigredo e albedo per giungere alla sua rubedo), dove morte e vita, ancora una volta, dimostrano la loro inscindibile interdipendenza. Come nei suoi film migliori, il regista ha deciso di realizzare un dramma pregno di dolore e delirio (il quale si è aggiudicato il Golden Globe 2018 come “Miglior film straniero”), utilizzando il cinema per narrare allo spettatore non una storia piacevole, ma una vicenda forte ed intima, capace di rispecchiare pienamente, e fino in fondo, il pensiero, l’originalità e le capacità dell’autore stesso.

Silvio Gobbi

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