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Home | Cultura | ‘La forma dell’acqua’: fiaba moderna su amore e marginalità
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La forma dell'acqua
La forma dell'acqua

‘La forma dell’acqua’: fiaba moderna su amore e marginalità

Pubblicato da Mauro Grespini in Cultura 1,428 Visite

È da poco uscito nelle sale il film La forma dell’acqua – The Shape of Water, del regista Guillermo del Toro, vincitore del Leone d’oro come migliore film alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (2017) e candidato a ben 13 Oscar (tra i quali, Miglior regista e Miglior sceneggiatura originale). La storia è ambientata nei primi anni Sessanta negli Stati Uniti d’America: i rapporti tra UsA e Urss sono tesi, la Guerra fredda è in una delle sue fasi più acute, e le due nazioni sono in competizione nella corsa per il predominio tecnologico e militare. Protagonista della storia è Elisa Esposito (Sally Hawkins), una donna muta, addetta alle pulizie in un laboratorio governativo. La sua vita è molto ordinaria: tutti i giorni lavora con la collega Zelda (un’afroamericana simpatica e chiacchierona, interpretata da Octavia Spencer) e passa le giornate con il suo dirimpettaio, Giles (Richard Jenkins), un disegnatore/pittore omosessuale, discriminato al lavoro per via del suo orientamento sessuale. La vita di Elisa muta il giorno in cui viene portato in laboratorio uno strano individuo proveniente dall’Amazzonia: un essere mezzo uomo e mezzo anfibio (interpretato da Doug Jones, molto simile alla creatura dell’horror del 1954 Il mostro della laguna nera, di Jack Arnold), incapace di comunicare a parole (proprio come la protagonista), ma dotato di intelligenza. Nel corso dei giorni, la donna sviluppa un sentimento di attrazione crescente nei confronti dell’individuo, fino a sfociare in vero e proprio amore: ciò la porta ad organizzare una fuga per poter salvare la creatura dalle grinfie del capo della sicurezza Richard Strickland (Michael Shannon), pronto ad uccidere l’essere, sia per sadismo che per evitare che finisca in mani nemiche.
Il personaggio della protagonista è fondamentale: la brava Sally Hawkins riesce a dare vita, con la sua ottima interpretazione, ad una donna muta e loquace allo stesso tempo, capace di esprimere i propri sentimenti meglio di quanto sappiano fare coloro che possiedono il dono della parola. Anche i deuteragonisti, Giles e Zelda, sono ben costruiti. Entrambi sono diversi da Elisa, ma simili nella condizione, perché anch’essi sono degli “emarginati” come lei: Elisa lo è in quanto muta (quindi considerata diversa), Giles per via della sua omosessualità e Zelda perché afroamericana. Ed è proprio questa marginalità condivisa, questa “diversità” rispetto alla “normalità”, che li porta ad organizzare la fuga del “mostro” (tale solo nell’aspetto, ma non nell’anima), perché provano empatia nei suoi confronti: egli è solo, non accettato dal mondo (come Elisa, Giles e Zelda), brutalizzato e trattato violentemente in quanto diverso e ritenuto pericoloso. Purtroppo, il fatto che l’autore faccia innamorare la protagonista della creatura non è una scelta del tutto originale, perché ormai è un tòpos che ci portiamo dietro dai tempi de La bella e la bestia. Ma per comprendere il valore del lavoro di Guillermo del Toro bisogna andare oltre questo cliché e prendere in considerazione, oltre alla caratterizzazione dei personaggi, anche la ricchezza di citazioni di vecchie pellicole presenti nell’opera (durante l’intero svolgimento della pellicola, possiamo vedere frammenti di vari film del passato, come, per esempio, La storia di Ruth, film biblico del 1960 di Henry Koster), l’evidente accuratezza scenografica e l’ottima regia.
Durante la visione del film, emerge chiaramente il buon utilizzo di varie tecniche e mezzi cinematografici tesi a rendere molto più fluida la ripresa delle scene, utilizzando strumenti come la steadycam e il dolly. Tutto ciò dona alla pellicola ritmo, fluidità e scorrevolezza: le immagini e le inquadrature scorrono velocemente e senza intoppi, liquide come l’acqua, elemento protagonista ed essenziale in questo film. La scenografia è cucita sulla storia e sui personaggi in maniera calzante: le ambientazioni sono curate nei minimi dettagli, rispecchiando efficacemente (anche grazie ad un attento e preciso studio dei colori utilizzati) i vari toni che assume la vicenda. In sintesi, del Toro ha prodotto una storia d’amore apprezzabile più per la sua realizzazione tecnica che per il contenuto in sé, più originale nella forma che nella sostanza. Il regista ha ottenuto un buon film, una fiaba moderna sulla marginalità, con fantasia e visione, ma non è riuscito a donare pienamente quella forza alla pellicola, quel quid che potevamo aspettarci da un’opera vincitrice a Venezia.

Silvio Gobbi

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recensione cinematografica 2018-02-18
+Mauro Grespini
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TAG: recensione cinematografica

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