Nelle sale cinematografiche italiane è tornato in circolazione, dal 15 gennaio, il film L’Atalante (1934; recentemente restaurato con la collaborazione della Cineteca di Bologna), l’ultimo lavoro del regista francese Jean Vigo (morto giovanissimo di tubercolosi, poco dopo l’uscita del film). È un’opera fondamentalmente sconosciuta al grande pubblico, data la sua età e la poca circolazione che ebbe ai tempi della sua uscita: l’accoglienza fu molto scarsa. La pellicola venne poi recuperata e rivalutata dopo la seconda guerra mondiale, quando critici e registi cominciarono a studiare il forte nesso tra la biografia/ideologia dell’autore e l’intera opera da lui prodotta. Per questo, prima di parlare del film in questione, occorre un breve excursus sulla biografia e le precedenti opere di Jean Vigo (1905-1934). Fin dalla giovinezza, il regista francese non ebbe vita facile: il padre anarchico, Eugène Bonaventure de Vigo (noto con lo pseudonimo di Miguel Almereyda), morì in carcere nel 1917, in circostante misteriose, ed il giovane Jean crebbe in solitudine, stringendo poche amicizie, arrivando così, nel tempo, a maturare una «visione anarchica dei rapporti sociali, una profonda amarezza esistenziale di fronte alla crudeltà di una società classista e autoritaria, un bisogno di rivolta, magari inconsulta o velleitaria, ma sincera»[1]: tale visione caratterizzò, di conseguenza, l’intera opera dell’autore, il quale utilizzò proprio il cinema per poter esprimere la sua amarezza nei confronti di una società sostanzialmente falsa e ingiusta. I suoi due primi lavori, À propos de Nice (1930) e Taris, roi de l’eau (1931), sono dei documentari non convenzionali. Tali prodotti filmici, sono in bilico tra il documentario classico e la trasfigurazione estetica, date alcune scene e sequenze propriamente artistiche, più vicine al cinema d’arte che al documentario: questa embrionale scelta stilistica, è una spia della futura originalità anticonformista e combinatoria dell’autore. Con i successivi lavori, Zéro de conduite (1933) e L’Atalante, Vigo raggiunse una sua originale poetica, approcciandosi al cinema narrativo, elaborando uno “stile maturo, in cui la […] deformazione dei dati realistici, la accentuazione forzata degli elementi grotteschi o satirici della narrazione, costituiscono il controcampo obbligato […] della rappresentazione «realistica» secondo quei modelli formali che proprio in quegli anni il cinema francese […] andava costruendo”[2]: in sintesi, delle opere autonome e indipendenti rispetto al cinema che circondava l’epoca del nostro autore, proiettate in avanti rispetto al proprio tempo. La storia di Zéro de conduite è ambientata in un rigido collegio: l’autore sfoga la sua insofferenza verso la società proponendoci una visione idealizzata dell’infanzia, vista come la “stagione più bella della vita, la più libera, la più sincera, la più «rivoluzionaria»”[3]. In questa opera, possiamo rintracciare (come nei suoi precedenti lavori) un’embrionale voglia del regista di superare il realismo puro, combinando insieme differenti stili cinematografici, inserendo delle particolari figure grottesche e sequenze vicine al surreale, per poter approdare ad un cinema che abbia l’ardire di andare oltre la mera descrizione della realtà, cercando di interpretarla.
Ma il vero culmine (e purtroppo anche punto finale) dell’opera di Vigo, si ritrova ne L’Atalante. La trama è molto semplice: Jean (Jean Dasté), capitano della chiatta fluviale “L’Atalante”, si sposa con la giovane Juliette (Dita Parlo), una ragazza di campagna. Subito dopo essersi sposati, i due vanno a vivere nella barca, insieme al giovane mozzo (Louis Lefèbvre) e il nerboruto e ambiguo père Jules (Michel Simon): una creatura a metà tra la bestia e l’uomo, tra il buono ed il cattivo, quasi a ricordare la “doppia natura” di alcuni soggetti che popolano il mondo delle leggende popolari. I quattro personaggi viaggiano lungo i fiumi della Francia, spostandosi continuamente per via del loro lavoro. Il grande amore tra i due giovani sposi, nel corso della storia, scema sempre di più: Jean diventa sempre più geloso, mentre la giovane Juliette soffre, perché vorrebbe godersi di più le città che la chiatta costeggia di giorno in giorno. I contrasti culminano con l’abbandono della nave da parte di Juliette e l’allontanamento dal marito. La giovane è costretta a vivere di espedienti, mentre il marinaio sprofonda sempre di più nella depressione, fino a diventare quasi un pupazzo senza anima. Grazie all’intervento di père Jules, il quale ritroverà e riporterà la donna sulla nave, i due potranno tornare a vivere insieme e cercare di recuperare il loro amore. Come visto, la storia è molto semplice, ma non è per nulla banale, perché quest’opera condensa e sviluppa quella caratteristica del cinema di Vigo che, nei lavori precedenti, era allo stato embrionale: il saper coniugare la rappresentazione di uno spaccato di realtà (in questo caso, la vita dei marinai fluviali) con un estetismo dagli aspetti fantastici e surrealisti. Questa “intrusione” del surreale è rappresentata principalmente da due sequenze: la “famosa” visione che Jean ha di Juliette mentre nuota sott’acqua (nota soprattutto a chi ha visto la sigla di “Fuori orario. Cose (mai) viste”, il programma di Rai3 curato da Enrico Ghezzi) e quella delle effusioni immaginarie e “a distanza” tra i due sposi. Tali sequenze oniriche completano la storia, donando alla rappresentazione uno sguardo totale sui sentimenti dei protagonisti: inserendo questi elementi, il regista è riuscito ad “ampliare” il contenuto e la rappresentazione di questa vicenda realista, rendendo la costruzione dei personaggi molto più sfaccettata e problematica, senza eccedere nella tracotanza di un racconto puramente intimista e lontano dal contesto sociale (Vigo raggiunge un perfetto equilibrio tra realtà e sentimenti dei personaggi).
L’Atalante rappresenta quel «modello di cinema che l’autore andava perseguendo, in cui realtà e fantasia, realismo e onirismo, devono fondersi in una superiore unità espressiva e dare origine a una visione disincantata, critica e problematica, della realtà»[4]. La capacità di coniugare due elementi solitamente considerati come inconciliabili, il realismo e l’estetismo/surrealismo, costituisce il punto di forza di tale lungometraggio. Questa caratteristica è così grandiosa da essere stata sottolineata pure da uno dei massimi esponenti della Nouvelle Vague, François Truffaut, il quale diceva che quest’opera concilia «due grandi tendenze del cinema: il realismo e l’estetismo. Ci sono stati nella storia del cinema dei grandi realisti come Rossellini e dei grandi esteti come Ėjzenštejn, ma pochi cineasti si sono provati a fondere le due tendenze quasi fossero contraddittorie”. Inoltre, a livello tematico, il grande punto a favore del film è che esso «affronta in realtà un grande tema, raramente trattato dal cinema, l’esordio nella vita di una giovane coppia, le difficoltà di adattarsi l’uno all’altra, con all’inizio l’euforia dell’accoppiamento […], poi i primi scontri, la rivolta, la fuga, la riconciliazione e finalmente l’accettazione dell’uno da parte dell’altra»[5]. Questa storia d’amore, radicata nella realtà, caratterizzata da scorci paesaggistici metafisici che sembrano tendere all’infinito e da sequenze poetiche, è un esempio di cinema audace. La famosa scena in cui Jean si tuffa e vede l’amata nell’acqua, fluttuante, è una forma di lirismo che completa il realismo della pellicola: innestando quel frammento di poesia onirica, in bilico tra visione, sentimento e realtà, Jean Vigo ha completato il suo lavoro. Con questa sequenza (e quella onirica dell’amplesso a distanza tra i due innamorati), Jean Vigo ha lasciato, ai successivi registi, la forza ed il coraggio di osare, di mescolare stili e poetiche apparentemente contrastanti: ha insegnato che si possono combinare stilemi apparentemente inconciliabili tra loro, per poter creare un’opera realmente originale. In questa pellicola, chi ha amore e passione per il cinema, non può non scorgere il genio visionario dell’autore, la sincera realizzazione di un prodotto nuovo, proiettato in avanti nel tempo. Con delle inquadrature e sequenze semplici ma non scontate, realiste e surreali al tempo stesso, pregne di potenza, Vigo ha creato delle immagini indelebili e uniche nel panorama cinematografico mondiale, le quali costituiscono una grande eredità per il mondo cinematografico del presente e del futuro.
Silvio Gobbi
Note
[1], [2], [3], [4] Gianni Rondolino, Storia del cinema, vol. 1, Utet, Torino 2006, pp. 300-301.
[5] François Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 2003 (riportato in http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-i-film/tutto-jean-vigo/latalante-film/).