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"Jackie", interpretato da Natalie Portman
"Jackie", interpretato da Natalie Portman

La recensione: “Jackie”, due anime nello stesso corpo

Jackie di Pablo Larraín (2016) è il secondo film della rassegna cinematografica dei “Teatri di Sanseverino”. L’opera è costruita intorno all’intervista rilasciata da Jacqueline Kennedy, pochi giorni dopo la morte del marito John Fitzgerald Kennedy nel tragico attentato di Dallas del 1963. Durante l’intervista, la giovane ex first lady espone la versione dei fatti secondo il proprio punto di vista, controllando ciò che il giornalista scrive, cercando di non far trasparire l’insanabile dolore scaturito dalla sconvolgente morte di JFK. A questa intervista vengono alternati dei flashback, utili a ricostruire la vita privata della donna e il grande lavoro che ci fu per organizzare il funerale del presidente. Il film ha un ottimo ritmo grazie ad una sceneggiatura ben scritta, equilibrata nella durata di ogni scena, ed è girato con una quasi assoluta predominanza di primi e primissimi piani: Larraín ha puntato l’intera forza dell’opera sulla bravura degli attori e della protagonista, interpretata da Natalie Portman, colonna portante dell’intero film. Tutto il lavoro ruota intorno a lei: la sua recitazione è un susseguirsi di emozioni. L’attrice riesce a vivere in maniera sincera il dolore provato da Jackie, come se fosse la vera signora Kennedy, mostrando delle doti interpretative che poche/i attrici/attori possono vantare (tant’è che, nella versione in lingua originale, si può notare il grande lavoro linguistico svolto dall’attrice nell’imparare a parlare con lo stesso particolare accento della vera Jacqueline Kennedy). Natalie Portman compie la sua più matura e migliore interpretazione (confermando la bravura che già ha dimostrato in passato in film come Léon, Closer, V per Vendetta, Il cigno nero), riuscendo a trasmettere efficacemente al pubblico, senza scadere in una recitazione né patetica né grottesca, l’intima sofferenza della vedova, la quale si è vista crollare il mondo addosso con la morte di quel marito non perfetto, ma, senza il quale, né lei né gli Stati Uniti potevano vivere. Il dolore è trasmesso anche dalla colonna sonora, la quale riesce ad enfatizzare le sensazioni che le scene vogliono trasmettere, senza risultare invadente rispetto alle immagini ed ai dialoghi. Nel corso del film emergono le differenze comportamentali della signora Kennedy “privata” e “pubblica”: Jacqueline, la dignitosa first lady delle cerimonie pubbliche, e Jackie, il lato privato, non ufficiale, con le sue fragilità, i suoi dubbi, i suoi errori e la forza che sa tirare fuori nel momento del bisogno. Nelle scene documentarie, dove la moglie del presidente presenta al pubblico americano gli interni della Casa Bianca, vediamo emergere pienamente il “lato Jacqueline”. In questo documentario ricreato, il “lato Jackie” emotivo è completamente celato: appare una first lady ufficiale, un po’ rigida nel muoversi, ma accogliente, intenta ad infondere al popolo americano sicurezza e fiducia (anche qui la Portman esegue un ottimo lavoro, dato che, comparando le immagini dell’attrice con quelle del vero documentario del 1962, sembra di vedere la perfetta copia dell’atteggiamento della signora Kennedy). Jacqueline è fondamentale nel processo di “mitizzazione” del presidente: John Kennedy è durato troppo poco tempo (dal 20 gennaio 1961 al 22 novembre 1963) per poter lasciare un’impronta forte nelle istituzioni statunitensi, specialmente per quanto riguarda i diritti civili, ma la moglie riesce lo stesso a rendere immortale la figura del marito. La donna si pone come una mite, ma risoluta, sacerdotessa della «religione civile americana», innalzando il defunto marito alla figura di martire, per far sì che esso venga ricordato dal popolo americano come viene ricordato il presidente Abraham Lincoln, identificato dalla nazione come la «vittima sacrificale immolata per la salvezza dell’Unione, e quindi dell’intera umanità» (Emilio Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza). Jacqueline è la facciata che noi vediamo, solenne e maestosa durante la marcia funebre del marito, ma la vera artefice della creazione del mito è la sua parte intima ed emotiva, Jackie, colei che ha voluto trasmettere il suo dolore ad ogni essere umano, rendendo la morte di Kennedy non solo un lutto familiare e nazionale, ma una vera perdita per il mondo intero.

Silvio Gobbi

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