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"Oro verde"
"Oro verde"

La recensione. L’“Oro verde” che uccide le culture

Nel nord della Colombia, a confine con il Venezuela, vive il gruppo etnico dei Wayuu. Radicati da tempo, isolati e resistenti alle invasioni delle varie potenze coloniali, essi hanno mantenuto, pur entrando in contatto con costumi differenti, la loro integrità etnica, i loro usi e costumi. Ma anche il sistema più impenetrabile è destinato a incrinarsi in qualche modo, ed è ciò che accade ad un clan di tale etnia, tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento. Raphayet, sposo della giovane e bella Zaida, non ne vuole più sapere di vivere di pastorizia e agricoltura come i suoi avi, e trova il modo di far soldi vendendo marijuana agli americani (l’oro verde). Il commercio dell’uomo cresce, il denaro aumenta: lui, la sua famiglia, il suo clan si arricchiscono, fino a controllare un cartello della droga da milioni di dollari. Ciò innesta il mutamento della comunità, l’abbandono delle vecchie pratiche, dei vecchi costumi, per concentrare tutte le energie al mantenimento e all’accrescimento dello smercio di droga. L’arcaico mantra che soleva ripetere Ursula, la madre di Zaida, «La famiglia, la nonna, il nipote dello zio, il nipote del nonno, sono rappresentati nelle dita della mano» ormai perde significato: la famiglia, il costrutto fondante di tale comunità (come di quasi tutte), perde il suo vitale senso di collettività, ed ognuno diventa un individuo estraneo agli altri, sfaldando ogni relazione; usanze, riti, miti, costrutti sociali secolari (se non millenari) spariscono in meno di venti anni.

Oro verde C’era una volta in Colombia (Pajaros de verano), di Cristina Gallego e Ciro Guerra narra, ispirandosi a fatti realmente accaduti, tale vicenda. L’avidità avvelena la famiglia di Raphayet distruggendola, trascinandola in guerra con altri gruppi per il controllo del traffico, per la brama di potere: la droga innesca una lotta intestina in questa antica popolazione, capace in passato di resistere a spagnoli ed inglesi, ma poi annichilita dal denaro della marijuana. Il film è un viaggio etnologico senza pesantezze documentaristiche: una storia capace di narrare, con asciuttezza, il mutamento antropologico di una piccola società. Una tribù dove il peso decisionale femminile è potente, una comunità che muta lungo i cinque capitoli della pellicola: dal principio, ancora legato alla tradizione, al limbo finale, dove tutto è perduto perché distrutto dalla violenza. Con accuratezza nei particolari (danze, sogni, miti e molto altro), il lungometraggio è un perfetto equilibrio tra storia, antropologia ed etnologia. Senza pretese apologetiche nei confronti dei nativi, assorbiamo la realtà di un mondo arcaico, antico ma non per questo immobile, in contatto con il resto del mondo ed a rischio contaminazione. Gli indigeni si dimostrano spietati tanto quanto i bianchi, una volta che perdono il loro contatto con l’antico, con le vetuste usanze che hanno temprato il loro popolo: quando abbandonano il senso di sacro della loro vita e della natura tutta, comincia la deriva. Proprio come il centauro Chirone diceva a Giasone in Medea di Pasolini: «Tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura […] quando la natura ti sembrerà naturale tutto sarà finito». Per Raphayet e la sua famiglia, di giorno in giorno, la natura diventa scontata, si svuota del proprio Lògos, della Parola. I miti scompaiono e nulla ha più un senso trascendente, e tale relativismo arriva ad annientare la famiglia, la base di tutto. E come dicono i Wayuu, se «[…] c’è famiglia c’è rispetto. Se c’è il rispetto c’è l’onore, se c’è l’onore c’è la parola. Se c’è la parola, c’è la pace».

Silvio Gobbi

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