di Alberto Pellegrino
Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Amedeo Gubinelli che viene al mondo il 27 febbraio 1925 a Matelica, dove ha passato l’infanzia e la prima adolescenza fino a quando è entrato nel seminario di Macerata per diventare sacerdote. Rimasto ben presto orfano, egli è stato cresciuto con grande amore da una zia che poi gli è rimasta accanto per tutto il tempo che è vissuta. Nonostante abbia trascorso tutta la sua esistenza di sacerdote, scrittore e operatore sociale a San Severino Marche, la città di Matelica gli è rimasta sempre nel cuore e vi tornava sempre volentieri, perché in essa sentiva ancora l’odore de la gioventù!: “ Oh, Matéllica mia, quantu si bella! / Ogni vorda che rvéngo e che te rvédo, / me trema ‘u core e so’ ccuscì contentu / che sempre a stentu / me decido a rpartì”.
Il sacerdote
Consacrato sacerdote nel 1949, è stato nominato parroco della piccola parrocchia di Chigiano, dove la sua prorompente personalità non ha mancato di lasciare un segno nella pastorale degli adulti e soprattutto dei giovani. Nel 1956 è stato nominato parroco a Taccoli, una frazione più grande e più vicina al centro urbano e ha ancora modo di raccogliere intorno a sé un gruppo di giovani per fare teatro e catechesi. In quel paesino, nel 1957 ha avuto la grande intuizione d’inventare e realizzare per la prima volta nella regione il Presepio vivente delle Marche con figuranti veri e “stazioni” sacre e artigiane disseminate per tutto il nucleo abitato e nei campi circostanti. Il successo è stato tale da richiamare una folla di visitatori e da richiedere nel 1960 l’aiuto dei giovani del Centro Turistico Giovanile per dare una mano nell’organizzazione dell’evento.
Ci eravamo conosciuti nel 1956, quando lui era un giovane sacerdote di 31 anni ed io uno studente di giurisprudenza di 21 anni, ma era subito scattata una naturale empatia che in breve si era trasformata in profonda amicizia. Quando nel 1957 ho avuto l’idea di fondare e presiedere il Centro Turistico Giovanil, ho trovato subito in lui un prezioso collaboratore sul piano delle idee e delle iniziative, per cui ha assunto l’incarico di consulente ecclesiastico, che poi ha ricoperto a livello regionale. Sono stati anni di meraviglioso fermento culturale per tutta la città, nella quale si sono susseguite manifestazioni a carattere sociale, culturale e religioso.
Nel 1968 Don Amedeo ha lasciato la parrocchia di Taccoli ed è stato trasferito nel centro urbano, dove ha cominciato a lasciare subito il segno nel campo della pastorale con l’apertura del “Circolo Giovanile”, al cui interno ha fondato il Teatro dei Giovani con il quale ha messo in scena i suoi primi testi teatrali a carattere umoristico, mentre nel corso della Settimana Santa si allestiva nelle Chiese la Sacra Rappresentazione della Passione, da lui scritta e interpretata insieme ad altri giovani attori.
Nel 1974 è stato nominato rettore della bella Chiesa di San Filippo e ogni domenica questa si è riempita di fedeli per assistere alla Messa, attratti dalla straordinaria qualità di un predicatore-affabulatore capace di trasmettere il messaggio evangelico con un giusto mixaggio di profondità e umorismo. Nel 1987 è stato nominato rettore del Duomo antico di San Severino al Monte
Dopo la chiusura del Circolo Giovanile, Don Amedeo nel 1977 ha assunto la gestione e la direzione del Cinema diocesano San Giovanni Bosco (San Paolo) ed è nata spontaneamente l’idea di fondare una compagnia teatrale amatoriale, per cui sempre nel 1977 abbiamo insieme dato il via al Cineteatroclub “Virgilio Puccitelli” che ha riunito attori di varia età e ha iniziato a rappresentare i testi teatrali scritti e interpretati dallo stesso Don Amedeo che, fra le altre sue doti, aveva quella di essere un validissimo attore. Questa attività è continuata fino al 1989, quando Amedeo ha cominciato ad ammalarsi gravemente per poi morire il primo febbraio 1991. Nel 1993 la compagnia è tornata a operare con la denominazione di Teatroclub Amedeo Gubinelli e con la mia direzione artistica, mantenendo viva un’attività per cui ancora oggi un gruppo di attori continua a portare sulle scene le sue opere teatrali.
L’operatore sociale e il giornalista
Amedeo Gubinelli è stato un personaggio di grande rilievo nel panorama cittadino, sempre presente e sempre impegnato nella vita sociale, politica, religiosa di questa città che aveva scelto come sua seconda “patria”. Dal 1974 al 1978 è stato il presidente dell’Associazione “Pro Sanseverino”, nella quale ha portato la sua creatività e le sue capacità organizzative. Ha inventato il Premio Cittadino dell’anno da assegnare a quelle personalità cittadine che si distinguevano nel campo della cultura, dell’economia, del lavoro; ha creato la “Sagra delle Sagre”, riunendo ogni anno in Piazza del Popolo il meglio delle Sagre organizzate nelle Marche. Oltre ad ambientare il “Presepio vivente delle Marche” nel magico contesto medioevale del Castello, ha fatto nascere dal nulla il Palio dei Castelli, una contesa fra i vari rioni cittadini e frazioni presenti nel territorio comunale nel solco di una tradizione medioevale che affondava le sue radici in antichi giochi popolari come il tiro con l’arco, il tiro alla fune, l’Albero della cuccagna, la corsa con i sacchi, la rottura della “pentolaccia”. Dopo tanti anni, la manifestazione continua a essere organizzata dall’Associazione Palio dei castelli in collaborazione con il Comune. Nel 1989 è stato nominato “Cittadino dell’anno” con la seguente motivazione: “Protagonista negli ultimi trent’anni della storia della cultura settempedana nella quale si è imposto con sue produzioni letterarie e teatrali e le rievocate manifestazioni storiche che continuano a scandire la vita sanseverinate”. Nel 1990, su proposta dell’arcivescovo Francesco Gioia, ha ricevuto dalla Santa Sede il titolo di “Monsignore” con questa motivazione: “la sua creatività e la capacità di dare voce alla cultura e alla sapienza popolare della nostra terra hanno reso don Gubinelli particolarmente capace di evangelizzare con i più diversi mezzi di comunicazione, che usa speso anche per un sistematico apostolato biblico”.
Uomo che ha sempre creduto nel valore e nell’importanza dei mezzi di comunicazione per l’informazione e la formazione dell’opinione pubblica, a partire dal 1982 Don Amedeo ha retto, quasi da solo e per anni, la direzione e la redazione della Voce Settempedana, l’inserto pubblicato all’interno del settimanale diocesano L’Appennino camerte. Su quelle pagine ha seguito le vicende dell’amministrazione comunale e dei partiti di maggioranza e d’opposizione, i dibattiti pubblici e le decisioni prese dalla Giunta e dal Consiglio comunale con argomentazioni molto serie riguardanti i problemi cittadini, ma anche con testi satirici in prosa e in versi scherzosi ma anche “taglienti”. E’ sufficiente ricordare componimenti poetici come Sansivirì, Cara tore, La giunta pellegrina, La tore de piazza, L’orologio de piazza, Li cinque sensi; oppure alcuni racconti sempre dialettali poi confluiti in volume come Lu cumiziu, Sor Ansermo candidatu, Lu comitatu de base, La protesta de Ursuletta, Li divieti de sosta, Quante guardie, Lu restauro de piazza.
Amedeo Gubinelli ha pubblicato, a partire dal dicembre 1978, anche un giornale personale intitolato Lu giornale de Sor Ansermo, rigorosamente scritto in dialetto e con uno spiritoso commento dei fatti avvenuti in citta in un determinato periodo, perché il giornale non aveva una data fissa d’uscita e sotto il titolo era riportata la scritta: “Esce quanno pòle… se piòe co’ l’ombrella”.
Amedeo aveva la capacità di esprimersi in un italiano fluido ed elegante (un esempio è stata la Guida storico artistica di San Severino Marche, 1975), ma più volte ha affermato di prediligere l’uso del dialetto della Marca centrale come strumento di comunicazione più diretto, efficace e legato alla tradizione.
In uno scritto del 31 ottobre 1990 egli ha affermato: “Una parola sul dialetto parlato… Alcuni insistono a dire che non è il dialetto di San Severino; ma io persisto a domandare se esiste più il dialetto settempedano: si è modernizzato al contatto con l’odierna cultura (“Ci ha ruinàtu la scòla”), rendendosi sempre più simile all’italiano. Ho cercato in tutti i miei scritti, commedie comprese, di recuperare le parole più antiche, quei vocaboli genuini, che usavano i nostri vecchi, frasi, proverbi, detti, che per me costituiscono il vero dialetto, quello d’una volta. C’è da dire poi che Sor Ansermo spesso parla un linguaggio fatto di parole italiane storpiate, o addirittura di vocaboli coniati da lui per rendere più brillante la frase e più netto il significato. In molte parole, poi, specie nella scrittura ho dovuto addolcire il dialetto, per rendere più comprensibile la lettura “a li stranieri de l’estero”, cioè ai non marchigiani”.
Il narratore
Amedeo ha avuto sempre la passione del raccontare che gli veniva in modo spontaneo, perché era un affabulatore capace di usare le parole oralmente in modo diretto e affascinante. Successivamente quei racconti sono passati sulla carta, dove personaggi e situazioni hanno preso maggiore vita sempre attraverso lo strumento del dialetto.
Nel novembre 1967 è uscita presso la Tipografia Bellabarba la prima raccolta di novelle intitolata Sor Ansermo recconta e il libro ha riscosso un immediato successo di lettori, tanto che nel 1981 l’autore ha dovuto pubblicare una seconda edizione ampliata e stampata presso lo Stabilimento Tipografico Savini e Mercuri di Camerino.
In quella occasione lo scrittore camerinese Angelo Antonio Bittarelli ha scritto: “Le rappresentazioni di Sor Ansermo portano sul palco e sulla pagina un momento eccezionale della vita di San Severino, l’inurbamento del contadino, quindi il momento della più gigantesca trasformazione del costume nella distesa provincia italiana…Questo Sor Ansermo fa subito colpo, si radica nella memoria e crea il pericolo di una grossa confusione: la macchietta nata dalla fantasia di un autore-attore a sua volta si fonde in unità totalizzante con il macchiettista. Sor Ansermo o Amedeo Gubinelli? Ormai la creatura si è talmente impossessata del popolare artista che gli ha trasmesso il suo nome: voi incontrate Gubinelli e pensate e chiamate Sor Ansermo”.
Spesso legati alla cronaca e agli avvenimenti contingenti, questi racconti rappresentano un commento divertente della vita quotidiana e continuano a mantenere un sicuro interesse, a vivere una loro vita, a resistere agli assalti del tempo per la loro immutata freschezza. E’ evidente tuttavia che, dietro queste storie nate per far sorridere, si nascondano degli insegnamenti morali, perché lo scopo della satira è stato da sempre quello di rendere gli uomini migliori per mezzo di un sorriso, cercando di colpire con l’arma sottile dell’ironia i loro difetti in modo di risvegliare le loro coscienze e riteniamo che questo sia uno dei risultati di maggiore rilievo ottenuti da Don Amedeo attraverso i racconti e il teatro.
In queste novelle troviamo una serie di annotazioni critiche sui costumi degli anni Sessanta/Settanta, una registrazione dei mutamenti e delle sfasature che si stavano verificando in una società soggetta a trasformarsi da rurale in urbana. A subire i contraccolpi di queste mutazioni non sono tanto i giovani quanto i più anziani, che faticano a inserirsi in un nuovo mondo, che guardano con diffidenza e accettano a malincuore tutte queste novità: nuovi modi di pensare e di vestire, nuovi modelli di comportamento, nuovi mezzi di comunicazione e di trasporto (ben diversi dall’amata “somara Giuditta” fedele compagna e confidente di Sor Ansermo), nuove forme di divertimento come possono essere una partita di calcio, una festa da ballo, una gita in città, le lentezze della burocrazia, le stranezze delle elezioni politiche e della politica in genere.
Tutto questo mondo ruota intorno a due personaggi fondamentali che formano una formidabile coppia. Il primo è Sor Ansermo che guarda tutto quello che sta accadendo con distaccata ironia, con uno sguardo bonario rivolto alla folla inquieta che si agita intorno a lui e che, a volte, gli sembra formata da “pazzi scatenati”. Egli osserva la vita con un sorriso e con una certa malinconia, a volte si lascia trascinare dagli avvenimenti, a volte cerca di guidarli con la sua antica saggezza. Rimane sempre un personaggio profondamente umano, mentre intorno a lui si agitano figli e figlie, fidanzati e pretendenti, parenti (in particolare ziu Angelì) e amici più o meno scomodi, ma Ansermo continua a osservare la società restandone ai margini, a volte vittima, a volte vincitore di quelle avventure-disavventure nelle quali finisce per trovarsi coinvolto.
Ben diverso è l’altro personaggio di Ursuletta, la moglie irruenta e rumorosa, tutta presa dalla mania della modernità, una donna a suo modo generosa e appassionata che tenta d’inserirsi in un mondo che non comprende a pieno, che rimane sostanzialmente estraneo alla sua mentalità, un mondo di cui afferra solo gli aspetti esteriori con il risultato di essere vittima di situazioni da lei stessa create o subite con il risultato di apparire una strana commistione di modernità e antichità. *
*Seguirà un secondo articolo dedicato al poeta e al commediografo